Quella domenica del 14 gennaio 1968 i primi, lievi tremori furono avvertiti a mezzogiorno. Malandati cornicioni del barocco nel centro storico di Palermo si sbriciolarono a terra. Nulla rispetto a quello che sarebbe accaduto qualche ora dopo. All'una di notte la città ebbe un sussulto intenso e profondo, piazze e strade si riempirono di panico. La gente uscì all'aperto con occhi di sonno e di paura. Le prime notizie nelle redazioni indicavano epicentro del terremoto una frattura profonda sullo spartiacque Agrigento-Trapani, la valle del Belice. E dei paesi della valle uno in particolare, Gibellina.
A ricostruire quanto accadde quella notte maledetta di cinquant'anni fa è il giornalista che la raccontò per primo attraverso le notizie battute dall'ANSA, Lucio Galluzzo, allora giovane cronista, poi a capo della redazione siciliana. "Pochi minuti dopo le due - ricorda - i carabinieri di Gibellina risposero al telefono. 'Cosa è accaduto?', chiesi. 'È crollato il campanile, alcune case sulla strada verso Trapani, stiamo facendo una ricognizione', rispose il comandante della Legione, che era gia' sul posto. Si chiamava Carlo Alberto Dalla Chiesa. 'Ci sono morti?', 'Non credo, sto facendo un giro per i paesi nella Valle, la scossa è stata violenta'".
In quell'istante stesso il cronista udì al telefono un respiro sordo e profondo, non capì che saliva dalla terra. "Che accade?", "Viene giù tutto", rispose Dalla Chiesa, e la linea si interruppe. I telefoni si ammutolirono, mentre anche a Palermo giungeva l'eco stemperata ed egualmente terribile di una scossa tra l'ottavo ed il nono grado della scala Mercalli.
La città fu scossa nella fondamenta, il panico divenne terrore incontrollato. Tutti fuori, alla ricerca di uno spiazzo libero. Galluzzo non ci pensa due volte. Sale sulla sua auto e in piena notte si dirige subito verso il "cratere" del terremoto.
"La vecchia strada di mille e mille curve da Palermo a Gibellina - racconta - era libera, nella notte, appena una decina di mezzi di soccorso incrociati su un tragitto di 90 chilometri. Oltre Alcamo, a Gallitello, la montagna era franata, superare i detriti fu difficoltoso. Alla luce dei fari l'asfalto era sgranato, spezzato, dietro ogni tornante un dislivello. Di tanto in tanto case diroccate, non una luce". Il giornalista dell'ANSA raggiunge la periferia di Gibellina all'alba, quando la luce del giorno comincia a farsi largo su uno scenario di morte e distruzione. Un ricordo che resterà indelebile nella sua memoria. "Le prime due case del paese erano segate dal terremoto a metà, esponevano letti disfatti, mettevano a nudo intimità violate, narravano di vite improvvisamente scaraventate altrove. Ora c'erano solo macerie. Si procedeva a piedi. E fu possibile udire le prime voci. Le flebili grida di chi invocava la mamma, Dio, aiuto da sotto le macerie. Le nenie di chi già piangeva i propri morti". "Davanti alla caserma dei carabinieri che con la sede del Banco di Sicilia, era l'unico edificio rimasto in piedi nel paese - ricorda ancora Galluzzo - c'era Carlo Alberto Dalla Chiesa. 'Pensava che non mi avrebbe più rivisto?', mi chiese".
Il sisma aveva raso al suolo Gibellina e più o meno altri 14 paesi del Belice, ucciso 296 persone. Un bilancio destinato ad aumentare, come sottolinea il cronista che di quella tragedia fu testimone. "Ciò che il terremoto non distrusse, i morti che non riuscì a fare subito - osserva Galluzzo - vennero nei giorni, negli anni seguenti, a causa dei soccorsi lenti, di un Paese impreparato a gestire l'emergenza, di una ricostruzione mai finita".
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