Forse non è un caso se anche per la parola-chiave di questa settimana dobbiamo partire da Donald Trump. D’altra parte il presidente americano, dichiaratore seriale soprattutto su Twitter, ha già dato parecchio lavoro ad analisti del linguaggio e sociologi oltre che a politologi. Si deve a lui il ritorno prepotente di una parola che, da circa 30 anni, e non a caso, era stata se non proprio dismessa certamente poco usata: muro.
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Per Trump è l’unica soluzione ad uno dei problemi epocali del nostro mondo: l’immigrazione. Nel suo caso, dal Messico verso gli Stati Uniti. E se quello costruito in una notte a Berlino, dapprima col solo filo spinato, divenne poi una frontiera davvero invalicabile, grazie alle 116 torri di guardia e ai 20 bunker distribuiti lungo i 140 km e soprattutto alla spietatezza dei famigerati Vopos, la polizia popolare tedesca – che secondo stime ufficiali fece quasi 150 vittime - , quello voluto da Trump sembra essere già sostanzialmente un flop. Come ha scritto il Washington Post, bastano attrezzi reperibili in qualunque ferramenta, per poter creare una breccia in questa barriera del XXI secolo.
Il che, a pensarci bene, è l’ennesima conferma di come i divieti non servano quasi mai, anche perché, nella migliore delle ipotesi, stimolano la creatività di chi li vuole superare, come in questo caso. Trump comunque non ha il copyright, né del muro in generale come è ovvio, e neanche di quello per ‘difendersi’, se così si può dire, dai migranti. Prima di lui e molto più vicino a noi, Victor Orban, nel luglio del 2015 ne ha fatto costruire uno al confine con la Serbia, per bloccare o comunque deviare la cosiddetta rotta balcanica dei profughi che dalla Grecia risalgono fino al cuore dell’Europa. E poi ha deciso di raddoppiare al confine con la Croazia.
D’altra parte, l’etimologia della parola non lascia scampo: deriva dal latino murus e fa riferimento alla muraglia perché per il muro di casa la parola usata era un'altra (paries) e anche nelle parole sanscrite le parole mura e murami i significati prevalenti sono quelli di chiusura, di qualcosa che avvolge e circonda. Il potere delle parole però sta anche in questo: spesso una ne richiama un’altra, magari di senso contrapposto. E’ quello che è successo con Papa Francesco e il suo instancabile richiamo a ‘costruire ponti e non muri’, quasi un controcanto alla retorica nazionalista del muro. E nonostante tutto la stessa parola muro alimenta un’ambiguità positiva. Ogni muro infatti segna un confine e il confine, come ci suggerisce la sua stessa etimologia, cum-finis, richiama la presenza dell’altro, di qualcuno ‘con’ cui siamo, vicini, molto vicini anche se separati. E’ proprio questo che il muro, fisicamente e simbolicamente, vuole fare: negarci la possibilità di essere con, di essere insieme a qualcun altro. Ma di fallimenti, da questa punto di vista, la storia ne ha offerti molti.
Il muro ha una tale forza semantica e simbolica da essere stato utilizzato in decine di locuzioni e modi di dire che rimandano tutti all’idea di opposizione, difesa, dimensione coatta: da fare muro al muro della pallavolo, dal muro di gomma a parlare al muro o mettere al muro. Tanto allegorico ben di Dio non poteva essere ignorato dalla musica, dove è utilizzato per lo più come metafora riferita al mondo immateriale, alla dimensione psicologica, alla vita interiore. L’esempio più potente è senza dubbio il celebre The Wall, penultimo album dei Pink Floyd con Roger Waters in formazione: la storia di un uomo disagiato fin da ragazzo e che, pur diventato una rockstar, non riesce ad abbattere il muro che si è costruito intorno fin dall’infanzia come autodifesa. Il disco esce 10 anni prima della caduta del Muro di Berlino ma per Roger Waters è inevitabile suonarlo dal vivo meno di un anno dopo quel novembre 1989. Waters, fra l’altro, pochi mesi prima dell’evento che ha cambiato il corso della storia dell’Occidente e non solo, aveva promesso che avrebbe suonato di nuovo dal vivo The Wall solo se fosse caduto il Muro di Berlino. Quando si dice la lungimiranza visionaria degli artisti.
Più sommessamente, tanta musica leggera italiana, anche meno impegnata, è costellata di ‘muri’ nei propri versi. Lucio Dalla ha raccontato, e se non è vero è ben inventato, che l’idea di Futura, cioè la storia di due amanti, uno dell’est l’altro dell’ovest che decidono di avere una figlia simbolo di speranza e di un futuro migliore, gli venne mentre era seduto su una panchina accanto al check point Charlie. Di muri ‘mentali’ canta anche Ivano Fossati in La musica che gira intorno, e quello del cantautore genovese è, proprio per questo, un muro maledetto, un muro che non ci fa aprire la mente alla diversità. Fossati aveva avuto un nobile precursore: il poeta Eugenio Montale, genovese anche lui, che del muro aveva fatto metafora di vita in una delle più celebri poesie italiane del ‘900, Meriggiare pallido e assorto.
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