Donald Trump si ostina a chiamare il coronavirus "un virus cinese", spiegando che la definizione è "appropriata" e "non ha nulla di razzista" perché indica da dove viene. Il presidente lo dice anche per contrastare la tesi complottista, alimentata da Pechino, che il virus sia stato creato in laboratorio in Usa e portato in Cina da militari americani. Ma questo ha i suoi effetti collaterali, soprattutto negli Stati Uniti, dove quella sino americana è la più grande comunità cinese d'oltremare fuori dell'Asia con oltre cinque milioni di persone, senza contare le migliaia di studenti che frequentano scuole e università americane. Qui i cinesi denunciano una crescente ostilità nei loro confronti, che oscilla tra la xenofobia e il razzismo, scatenata dalla guerra dei dazi di Trump e rafforzata ora dalle accuse a Pechino di aver nascosto nella fase iniziale un virus 'made in Cina'. Molti studenti raccontano episodi di cui sono vittime, anche nei campus: occhiatacce, mormorii, gente che si siede il più lontano possibile da loro o che cambia strada. Una professoressa che insegna al Claremont Colleges di Los Angeles agli studenti internazionali, in gran parte asiatici, ha confermato l'atmosfera xenofoba nei loro confronti e condiviso alcune situazioni imbarazzanti. Come quando, poco prima che chiudessero le università, ha portato una sua classe a mangiare la pizza in un locale praticamente vuoto e il proprietario, dopo aver dato un'occhiata al gruppo, voleva far entrare solo lei. Ha dovuto ripiegare su un ristorante cinese. Sui social fioriscono le reazioni degli studenti cinesi, che ricordando le tante "colpe" dell'imperialismo Usa e si spingono a rimproverare agli europei di aver sterminato con le loro malattie i nativi americani durante la colonizzazione. Anche il virus dell'antagonismo può essere pericoloso
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