Come uscito da un testo recente di David Grossman (che prevedeva un affievolimento del conflitto di fronte alla pandemia), il professore Elhanan Bar-On del centro medico Sheba di Tel Aviv è in prima fila nella lotta al coronavirus non solo in Israele ma anche al fianco dei suoi colleghi palestinesi della Cisgiordania (dove si è recato per consultazioni) e anche di Gaza, dove invece l'ingresso gli è precluso perchè terra di Hamas. "La cooperazione con la Autorità palestinese - spiega in un colloquio con la stampa - non è solo altruismo. Siamo tutti nella stessa barca". E dunque l'emergenza obbliga a superare le barriere politiche.
Bar-On lavora in uno degli ospedali più moderni in Israele ma da direttore del 'Centro medico israeliano per le zone disastrate' è abituato ad operare anche in zone di 'medicina di base' del terzo mondo. Con l'arrivo del coronavirus in Israele ha subito organizzato un padiglione di isolamento. Là ha elaborato metodi di lavoro per impedire altri contagi, per proteggere il proprio staff e per far sì che la malattia non raggiungesse il vicino ospedale. Quanto appreso sul terreno ha spartito con i colleghi palestinesi a Gerusalemme est, a Gerico (Cisgiordania) e con quelli di Gaza.
"Il loro personale medico è di qualità", ha affermato.
"Quello che lascia a desiderare sono le strutture". Finora gli isolamenti imposti dai palestinesi reggono: "Ma a Gaza c'è il potenziale di una catastrofe" per il grande sovraffollamento.
Cosa prevede per il futuro? "Stiamo aspettando la grande ondata, che potrebbe anche non venire. Il virus si comporta in modo strano, 'da bastardo'. Ma noi - assicura - ci teniamo pronti".
Un consiglio? "Lavorare con saggezza, in modo sistematico, anticipare gli eventi".
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