"Siamo gli amici dei tempi bui". Mentre un C-130 dell'esercito decolla da Ankara per portare il secondo carico di mascherine e disinfettanti negli Stati Uniti, il portavoce del presidente Recep Tayyip Erdogan annuncia che un altro cargo da 15 tonnellate partirà in serata per fornire assistenza anche ai "fratelli palestinesi" in Cisgiordania e a Gaza. Prima, i dispositivi di protezione contro il Covid-19 - prodotti ogni settimana a milioni da un'industria tessile che durante la pandemia non si è mai fermata - erano già stati inviati dalla Turchia a Israele e Iran, nei Balcani e persino in Cina, oltre che ad alcuni degli alleati Nato più colpiti, dall'Italia alla Spagna. È la nuova geopolitica degli aiuti di Erdogan: mix di potenza e solidarietà, lavoro di immagine e diplomazia per rafforzare rapporti antichi e tesserne di nuovi, provando a ricucire gli strappi di una politica estera spesso aggressiva.
Sono 55 i Paesi cui Ankara ha spedito aiuti sanitari, dopo aver frenato le esportazioni dei privati. La bandiera rossa con la mezzaluna e la stella è finita in bella vista nelle immagini televisive, come nell'accoglienza un mese fa a Pratica di Mare delle forniture turche da parte del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Ad accompagnare i carichi sanitari, una ricorrente citazione sulla speranza del poeta mistico duecentesco Mevlana e una lettera a firma di Erdogan ai capi di stato e di governo. Come quella diretta a Donald Trump, in cui la retorica sugli "sforzi comuni" contro la pandemia va a braccetto con l'auspicio che "in futuro e alla luce della cooperazione che abbiamo mostrato il Congresso e la stampa americana comprenderanno meglio l'importanza strategica delle nostre relazioni". Congelata causa pandemia l'attivazione dei missili russi S-400, l'assistenza degli Usa potrebbe tornare comoda per affrontare le temute tempeste economiche.
Non secondaria è poi l'idea trasmessa all'opinione pubblica interna che Ankara ha risposto così bene all'emergenza da potersi permettere di aiutare gli altri, persino americani ed europei. L'ambizione che anima questa strategia "proattiva" - così l'ha definita il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu - non si nasconde: restituire alla Turchia l'immagine di alleato affidabile nei momenti difficili, senza trascurare quella di player regionale strategico. Al punto che la diplomazia del coronavirus l'ha spinta a non lesinare aiuti a Israele dopo anni di tensioni. E persino all'Armenia, con cui i confini restano chiusi, Erdogan aveva offerto le sue mascherine. Erevan ha declinato, ma stavolta non si potrà dire che nei "tempi bui" Ankara non c'era.
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