Tra gli incontri più attesi in India dopo l'alleggerimento del lockdown, ci sono quelli tra varie decine (ma qualcuno parla di centinaia) di genitori e dei figli neonati che non hanno mai visto. Sono i bambini partoriti nelle scorse settimane da madri surrogate e poi rimasti separati dai genitori biologici nelle cliniche, dove vengono accuditi e nutriti dagli operatori sanitari che li hanno fatti venire al mondo.
Una situazione paradossale: nel solo Akanksha Hospital and Research Institute di Anand, in Gujarat, dal 25 di marzo sono nati 28 bambini, e almeno dieci di loro attendono ancora i genitori biologici che fremono per poterli cullare tra le braccia. Anand è la città diventata famosa negli anni recenti come capitale indiana dell'utero in affitto. In India, infatti, la legge ha consentito a lungo la pratica, in un Far West del tutto privo di tutele per le donne che prestavano l'utero: un business milionario che, secondo i calcoli, ha fatto nascere ogni anno circa 1500 bambini da coppie che arrivavano da tutto il mondo e che ha portato a ingenti guadagni.
Il quadro è cambiato dallo scorso dicembre, quando il parlamento indiano ha approvato una legge severa, che vieta la maternità surrogata e la limita a rarissimi casi, solo tra parenti.
In quel momento, tuttavia, molte gravidanze erano già avviate e la nuova legge non ha potuto fermarle. A quel punto è arrivato il Covid-19, e ai nove mesi "canonici" di attesa si sono aggiunti i quasi sessanta giorni del lockdown. Ma per i genitori biologici originari di Stati diversi, la via crucis non è ancora finita: per tutti, una volta arrivati ad Anand, prima di poter stringere tra le braccia i loro figli saranno necessarie due ulteriori settimane di quarantena.
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