Un appartamento di due stanze e mezzo a Jabalya, uno dei campi profughi principali di Gaza. Quattro figli in età compresa fra 8 e 18 anni. Ed una estenuante chiusura delle scuole, tuttora in corso. Questa la situazione con cui Fatma con suo sconforto deve misurarsi fin da marzo a causa del coronavirus. "A tratti - ammette - è stato un inferno". In tempi normali a Gaza le scuole restano aperte da settembre a maggio. I ragazzi tornano a casa nel primo pomeriggio, mangiano qualcosa, preparano i compiti e poi vanno a letto presto. Col Covid-19 tutto questo è stato sconvolto. Per alcune settimane agli abitanti è stato chiesto di restare in casa. Poi, gradualmente, sono stati autorizzati ad uscire, pur adottando precauzioni.
Organizzare la routine familiare a Gaza è una impresa quasi impossibile quando - come nel caso di Fatma - si devono conciliare le necessità "di due figlie femmine e due maschi, con una sola televisione e con otto ore di corrente elettrica in casa", erogata quando capita a causa della penuria nella Striscia. Se possibile le cose sono peggiorate quando il marito, Ahmed, cameriere in un ristorante, è rimasto senza lavoro. Di norma tornava dopo la mezzanotte e subito andava a dormire.
Quando si svegliava la casa era tranquilla perchè i ragazzi erano a scuola. Col coronavirus, con tutti i familiari stipati nelle due stanze e mezzo, le tensioni sono divenute quasi intollerabili. Per fortuna, prosegue Fatma, alla fine di aprile è iniziato il Ramadan, il mese di digiuno islamico. Di giorno figli e marito preferivano dormire. Così le tensioni sono calate. Adesso però il digiuno è finito mentre le scuole restano chiuse, anche se a Gaza si sono avuti solo 61 contagi ed un decesso. A giudizio di Fatma non c'è ragione perchè le scuole non siano finalmente riaperte. "Così - conclude - finalmente si tornerebbe a respirare".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA