Un mese fa seicento casi positivi di coronavirus (con Gaza e Gerusalemme est), seimila oggi. Queste le cifre allarmanti che hanno costretto il governo dell'Anp di Mohammed Shtayeh ad ordinare in Cisgiordania una chiusura di due settimane. La paura si annida ovunque: in particolare a Hebron, dove ogni giorno si hanno nuovi decessi.
Fino al mese scorso l'Anp era persuasa di essere uscita a testa alta dalla sfida del coronavirus, avendo superato un test difficile come il Ramadan, il mese di digiuno caratterizzato dalla moltiplicazione dei contatti familiari. Poi il governo ha allentato le redini e presto i contagi sono risaliti a ritmo accelerato.
Nella prima ondata l'insidia maggiore era stata individuata nelle migliaia di pendolari cisgiordani impiegati in Israele. In questa fase, secondo Shtayeh, il pericolo principale di contagio risiede nella grande promiscuità sociale che avviene nei matrimoni e nei luoghi di cordoglio collettivo: di solito tende erette in prossimità delle abitazioni di defunti. Più che della polizia il premier si è avvalso allora dei codici di comportamento e ha fatto appello ai capi dei principali clan familiari affinchè vietino, "per ragioni di onore", lo svolgimento di matrimoni e di lutti collettivi "fino al superamento della pandemia". Multe pesanti sono state stabilite per chi ignori la chiusura (con eccezioni per farmacie, empori alimentari e banche).
Intanto la crisi economica si manifesta con prime proteste sociali. A Betlemme i proprietari e i conducenti di mezzi pubblici hanno lamentato di non aver ricevuto dal governo indennizzi adeguati a superare la crisi, dovuta all'improvvisa assenza di moltitudini di turisti e pellegrini. I dipendenti pubblici sono pure in agitazione avendo ricevuto salari decurtati a causa della scarsezza delle riserve statali.
Malessere anche fra i commercianti che intrattenevano rapporti con la popolazione araba in Israele. Con la chiusura delle città cisgiordane hanno perso, almeno per ora, quella importante clientela.
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