Cambiamento è una parola talmente usata in questo periodo, negli ultimi anni e poi sempre più insistentemente da quando a febbraio-marzo del 2020 la pandemia è arrivata anche in Italia, che una puntata sola non è bastata a completare il viaggio attraverso tutte le suggestioni che l’espressione può ispirare.
Innanzitutto nella prima parte non avevamo proposto la canzone che è probabilmente il manifesto del cambiamento, certamente di uno dei più importanti della nostra epoca, dal titolo perfino proverbiale: ‘The Times They Are A-Changing’ di Bob Dylan. La canzone è stata scritta nel 1963 e, come hanno sottolineato molti, l’intento era proprio quello di scrivere un inno generazionale. Quello di cui Dylan voleva parlare, con alcuni versi che indulgono quasi alla profezia (“ammettete che le acque attorno a voi stanno crescendo / e accettate che presto sarete inzuppati fino all'osso”), era infatti un cambiamento ai suoi inizi ma che di lì a poco tutti avrebbero giudicato epocale. Il cambiamento sociale della seconda metà degli anni ’60 con l’affermazione delle rivendicazioni giovanili e la nascita stessa della categoria dei giovani raccolti intorno ad identità collettive conflittuali rispetto al passato, incarnato soprattutto dalla generazione dei padri. Sono gli anni della cosiddetta cultura beat, del flower power, del rifiuto del consumismo e poi del ’68. “E se il tempo per voi significa qualcosa – canta Dylan nella strofa successiva - fareste meglio a cominciare a nuotare / o affonderete come pietre / perché i tempi stanno cambiando”. La ‘a’ del titolo era un rafforzamento, si usava così nell’Inghilterra del XVIII secolo e lo stesso Dylan dice di essersi in parte ispirato a certe ballate irlandesi e scozzesi. Dylan sembra voler chiamare a raccolta tutti per mostrar loro l’importanza del cambiamento: prima la gente in generale, people, poi nelle altre strofe scrittori e critici, senatori e membri del Congresso e infine madri e padri.
Il cambiamento di cui parla biblicamente Dylan è un’evoluzione irreversibile e imponente, forse una rivoluzione, ma non è una metamorfosi che pure è un’altra declinazione possibile del cambiamento che ha avuto grande fortuna in letteratura, da Ovidio a Kafka, ma è anche un tema centrale della riflessione psicologica e psicanalitica, sia per il passaggio cruciale dell’adolescenza, paragonata al bruco che deve diventare farfalla, sia per la concezione, in questo caso certamente negativa, della continua e superficiale modifica dei comportamenti cui la psicoanalisi contrappone la trasformazione profonda, che è l’obiettivo finale della pratica analitica.
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La metamorfosi, fatte salve le suggestioni letterarie, ci porta più vicino all’altra dimensione negativa del cambiamento, su cui a molti è capitato di riflettere in questo periodo delusi dalla mancanza di cambiamenti reali o addirittura dalla presenza ingombrante di quelli solo apparenti. E’ una dimensione che noi italiani conosciamo e che un’altra opera letteraria, Il Gattopardo, ha fotografato una volta e per sempre con la frase di Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Insomma, cambiare tutto perché nulla cambi. Questo, per rimanere al cluster di parole che confinano con cambiare e cambiamento, è la trasformazione, non più superficiale come dice la psicologia a proposito di certi vorticosi cambi di atteggiamento, ma la più bugiarda, quella che ha dato vita ad una parola precisa che è di origine italiana doc e risale alla fine del XIX secolo: ‘trasformismo’.
E poi naturalmente c’è il vero cambiamento negativo, quello che ci fa peggiorare rispetto al presente o al passato e questo è il caso del cambiamento climatico, di cui ci sono tracce così evidenti che sembra essersi affievolito anche l’impeto del negazionismo più convinto. In ogni caso, mentre siamo assediati da corsi on line sul cambiamento, una cosa certamente la sperimentiamo tutti i giorni, lo abbiamo già accennato nella prima parte: le rivoluzioni sono affascinanti ma i cambiamenti solidi e duraturi, quelli chi ci migliorano costantemente, nella maggior parte dei casi avvengono piano piano, un po’ alla volta, un pezzettino alla volta. C’è una parola per dire questo ed è, forse non a caso, giapponese: kaizen, composizione di due termini, cambiamento e migliore. Il metodo che si richiama a questa parola lo ha messo a punto e chiamato così un manager della Toyota negli anni ’80: quaranta anni dopo viene da dire che ci si può fidare.
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