'Ti sei mai accorto come è diventato là fuori?' Quello che Joker- Joaquin Phoenix, vuole dire al conduttore dello show tv che lo ospita, il Murray interpretato da Robert De Niro nel film 'Joker' di Todd Phillips, è, in sostanza, che non c’è più una comunità: tutti urlano, strepitano, sono maleducati, secondo l’espressione che usa lui stesso, e sono tutti uno contro l’altro: 'Nessuno più – urla Joker poco dopo aver confessato si essere l’autore del triplice omicidio nella metropolitana – prova a mettersi nei panni dell’altro'. E’ una sensazione che il giovane Arthur, Joker appunto, conosce bene: nel degrado di una città abbandonata dalle istituzioni e preda dell’aggressività di singoli e gruppi, il giovane soffre certamente a causa di un’esistenza ingrata e solitaria, senza padre e con una madre che ha bisogno lei di essere accudita e con una malattia mentale non meglio precisata, ma soprattutto per la solitudine in un mondo diventato profondamente disumano.
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'Dobbiamo tornare allo spirito di marzo' oppure 'la società non sembra essere più coesa' come qualche mese fa: sono due delle espressioni che abbiamo sentito ripetere in questi giorni da istituzioni, esperti, osservatori. Di quale spirito si parla esattamente? Di quello che ci aveva fatto riscoprire le pratiche di buon vicinato, la spesa solidale, i saluti e la musica dai balconi, il rientro volontario al lavoro di medici in pensione, la consegna di cibo ai confini delle prime zone rosse: in altri termini lo spirito di comunità, la parola più gettonata nei giorni più difficili della, purtroppo non imprevista, seconda ondata della pandemia. Ed è la parola che è tornato a richiamare il presidente Mattarella parlando in occasione del centenario dell’anno accademico dell'Università cattolica del sacro Cuore. Il Capo dello Stato ci ha messo accanto una riflessione ulteriore con l’uso di un’altra parola dai risvolti interessanti: dipendere. La pandemia, ha detto, ci ha ricordato come ognuno di noi dipenda dagli altri. Dipendere, come tante parole che abbiamo incontrato, vive su un crinale, in equilibrio tra l’idea di derivare o addirittura di essere determinato e quella di 'essere in potere', 'avere la facoltà', come quando diciamo 'dipende solo da te'. Senza contare che una delle espressioni che usiamo più di frequente per rispondere ad una domanda – e che alcuni avrebbero voluto che fosse usata di più anche dall'esercito di virologi che nell'ultimo anno si è avvicendato nei talk – è proprio 'dipende', che ha una sfumatura ancora diversa ma rimanda comunque all’idea che è determinante il contesto, la relazione, la rete di azioni e reazioni nella quale la questione è inserita.
Ma cosa significa comunità? Perché la invochiamo? Da dove viene questa parola?
Ha la sua radice in comune che genera, fra le altre, la parola comunicare. Risale al XIII secolo all’apice cioè di quella che sui libri di storia è nota appunto come l’Età dei comuni, ovvero quel momento che vede rifiorire dal punto di vista sia demografico che economico le città mettendo in moto un meccanismo anche di evoluzione politica fondamentale e di esercizio di libertà e prerogative giurisdizionali. Abbiamo sfiorato questa parola quando abbiamo parlato di immunità perché in un certo senso, e un po’ paradossalmente se caliamo tutto nella realtà del Covid, è il suo contrario e non a caso Roberto Esposito, lo studioso che avevamo citato come autore del libro Immunitas è lo stesso che, più di venti anni prima, ha scritto Communitas. Il termine deriva infatti come l'altro dal latino munus ma ha davanti, invece del suffisso privativo, il cum che significa 'con' e che indica qualcosa che sta insieme. Cum munus ovvero con un obbligo, con un ufficio da svolgere, qualcosa dunque che appartiene a più persone. La parola richiama da subito un legame, uno stare insieme. Ma per fare cosa? L’ambiguità del termine munus ci dice tantissimo: onere ma anche dono.
Ecco perché Esposito ci richiama a riflettere sul termine non come proprietà, come un 'pieno', un territorio da difendere e separare rispetto a coloro che ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono (che sono appunto i significati originari di munus) nei confronti degli altri. Ed è per questo che, nei suoi interpreti e utilizzatori più visionari, il termine comunità è legato all’idea di una colleganza non ostile, come nel caso di Martin Luther King che parlava di destini incrociati per la comunità nera e quella bianca, o a progetti, più o meno utopici, di risveglio e rivalutazione delle comunità locali, come quella di Adriano Olivetti e della sua lista chiamata Comunità, con la quale divenne sindaco di Ivrea nel 1956. Ed ecco perché usiamo magari senza pensarci troppo quella parola quando parliamo di comunità di un giornale per esempio, per indicare i lettori che condividono un punto di vista o una linea politica o, prendendo a prestito la parola dall’inglese, di community, per ricomprendere quel perimetro mobile di coloro che appartengono ad uno stesso nucleo di interessi espresso attraverso l’adesione ad un gruppo social. Per non parlare delle comuni hippie degli anni ’60 dove l’accento cadeva proprio su quel mettere tutto in co-mune . Non so se esista un gruppo con questo nome ma in questi casi si potrebbe chiamare tutti a raccolta al grido di 'Come together', la canzone dei Beatles che John Lennon scrisse ispirato dalla campagna di Timothy Leary, scrittore e psicologo favorevole all’uso delle droghe psichedeliche, per essere eletto Governatore della California con il motto 'Come together, join the Party'.
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