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La parola della settimana: 'Libertà' (di Massimo Sebastiani)

La parola della settimana: 'Libertà' (di Massimo Sebastiani)

13 maggio 2021, 18:00

Redazione ANSA

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PAROLA DELLA SETTIMANA - LIBERTA ' - RIPRODUZIONE RISERVATA

PAROLA DELLA SETTIMANA - LIBERTA ' - RIPRODUZIONE RISERVATA
PAROLA DELLA SETTIMANA - LIBERTA ' - RIPRODUZIONE RISERVATA

LIBERTA’ Libertà è una di quelle parole talmente grandi, talmente pesanti, così importanti che è perfino difficile capire da dove prenderle per poterle analizzare. Avevamo fatto questo tipo di osservazione più di un anno fa per la parola ‘amore’: le due espressioni hanno in comune anche un formidabile rischio di consunzione, sono esposte all’usura dell’abuso, della magniloquenza, della retorica.

Ascolta "La parola della settimana: libertà (di Massimo Sebastiani)" su Spreaker.  

Ma per fortuna si possono trovare ancoraggi sicuri, punti di partenza che ci danno già una prospettiva solida benché magari insolita, come per esempio le parole e l’energia di ‘Think’, il brano di Aretha Franklin universalmente riconosciuto come un inno alla libertà, in questo caso femminile. Una canzone pubblicata in un anno chiave, il 1968 e poi rivitalizzata e forse un po’ stravolta dall’ironia dei ‘Blues Brothers’ di John Landis dove, in una scena travolgente e memorabile, accanto ai protagonisti John Belushi e Dan Aykroyd compare proprio lei, la regina del soul, a ricordare al marito, Matt, aspirante chitarrista della band che i due stanno mettendo su, i suoi doveri famigliari, in particolare nel fast food che gestiscono insieme. Già solo in questa scena, quindi, la parola libertà sembra liberare, e il gioco di parole non è casuale, tutto il suo potenziale di ambiguità, o per meglio dire di complessa stratificazione, di rimandi e di echi. Si parla di libertà ma al tempo stesso si richiama un dovere e un legame: ‘You need me and I need you’, canta Aretha. E’ una di quelle parole, si potrebbe dire, che diffonde un alone immenso, come i cerchi di un sasso nell’acqua, che sembrano propagarsi all’infinito. Ha scritto Salvatore Veca nel suo ‘Dizionario minimo’ delle parole relative alla convivenza democratica: ‘Il fantasma della libertà – citazione chiaramente voluta del titolo di un film di Luis Bunuel – ha il suo alone e il suo corteo variegato di discorsi e narrazioni’. In parole povere, dice Veca, ‘si parla, si è parlato e presumibilmente si continuerà a parlare di libertà in tanti sensi diversi, nello spazio e nel tempo’.

Non è una novità: questo tipo di considerazione ci è già capitato di farla per diverse altre parole e questo, d’altra parte, è il motivo per cui è interessante occuparsi delle parole: l’ambiguità, la sorpresa, la scoperta, il ribaltamento, la contraddizione sono spesso dietro l’angolo, appena si comincia ad approfondire un po’ concetti e storie che stanno dietro e intorno a determinate espressioni. La libertà come la conosciamo oggi, o come la intendiamo oggi quando pronunciamo la parola, intesa come lo stato di qualcuno che può agire senza costrizioni e impedimenti, ha avuto bisogno del cristianesimo prima dello sviluppo, anche politico, delle città poi; ed emerge dunque tra l’età dei Comuni e il rinascimento ma conosce il suo maggiore sviluppo nel pensiero moderno.

La parola però deriva dal latino e qui arriva già una prima sorpresa: la vicinanza della radice del termine a quella di ‘libere’, far piacere, aggradare, così che libens significa volenteroso, perché solo chi è libero può fare ciò che gli piace. Insomma libertà si avvicina semanticamente ed etimologicamente al piacere: libidine, libare. Mentre nel mondo romano i liberi erano i figli e per questo ancora oggi le liberalità sono doni e concessioni incondizionati (e dietro questa espressione si nasconde, di nuovo, l’idea stessa di libertà cioè la mancanza di costrizioni, di condizioni).

Ma il punto è che la libertà non è assenza totale di legami (come sembra suggerire anche Aretha Franklin) e di regole e non ha e non può avere quindi un solo senso ma almeno due. Un maestro del pensiero liberale, appunto, che abbiamo già citato a proposito della parola compromesso, lo ha spiegato in modo definitivo: alla fine degli anni ’50 del Novecento in piena contrapposizione tra i due blocchi, quello delle democrazie liberali e quello del socialismo sovietico, Isaiah Berlin dedicò la sua lezione introduttiva a Oxford a ‘I due concetti di libertà’ distinguendo tra libertà positiva e negativa. Berlin, in quello che sarebbe diventato un classico del pensiero politico contemporaneo, voleva rispondere a domande che ci stiamo ancora facendo in queste settimane: cosa significa non essere liberi di poter fare qualcosa? E qual è il nesso tra libertà e desiderio (che abbiamo visto essere piuttosto stretto dal punto di vista etimologico)? La risposta fu: è la libertà negativa, cioè la libertà da (era anche il titolo di un modernissimo testo scolastico in uso negli anni Settanta), quella che definisce un’area entro la quale una persona è o fa ciò che aspira a fare o essere. Confina ma, suggerisce Berlin, non è la stessa cosa della libertà di, che sembra non voler avere limiti. Come nell’urlo liberatorio, è il caso di dire, di una celebre canzone dei Queen. Dovremo tornare a parlarne.

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