I più maturi tra i nostri lettori ricordano sicuramente la pubblicità di Gino Bramieri per la plastica Moplen. E mo’ e mo’? Diceva l’attore, cabarettista e conduttore milanese in alcuni celebri Caroselli, e si rispondeva: 'E mo’, Moplen'. Erano gli anni Sessanta, gli anni ruggenti della plastica, quando il nuovo materiale sembrava (e certamente era) la soluzione a tanti problemi: dai bicchieri ai manici alle scatole, dai bagnetti per i bambini alle carrozzine e ai giocattoli fino ai dischi, la plastica era il materiale vincente per oggetti resistenti, duraturi, colorati e, non ultimo, a buon mercato. Qualcuno la definì il bronzo del XX secolo perché, proprio come quel materiale che segnò una nuova epoca dopo l’età della pietra, sembrava imprimere una svolta decisiva alla produzione e alla diffusione delle merci. E non è un caso che la cosiddetta 'età adulta della plastica' accompagna, identificandolo, il boom economico del secondo Dopoguerra. La sua storia in realtà nasce prima, alla fine dell’’800, e passa attraverso diverse tappe: dalla xylonite alla bakelite, dal PVC al cellophane e al nylon. Ma il boom, per l’appunto, arriva con il polipropilene isotattico (il Moplen, appunto), scoperto nel 1954 dall’italiano Giulio Natta, l’ingegnere chimico che vincerà il Nobel nel 1963 in comproprietà con il tedesco Karl Ziegler che aveva isolato il polietilene.
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La sostanziale caratteristica della plastica - che in un certo senso ha una storia ancora più lunga di quella che abbiamo tratteggiato se pensiamo a materiali come il corno o l’ambra che vengono considerati veri e propri polimeri naturali - è quella di essere un materiale solido ma facilmente deformabile; una sostanza in grado di acquisire e conservare qualsiasi forma. Ma la parola 'plastica' è alla base anche di un avverbio di cui sembra che non si possa più fare a meno nel discorso pubblico e che non pare avere a che fare con continue modificazioni: plasticamente.
'In Aula si vede plasticamente la faglia che attraversa la maggioranza'; oppure: 'il caso Afghanistan ha plasticamente raffigurato una Europa incompleta'; o ancora: 'un partito che rimane plasticamente diviso'; e infine: 'il caso Evergrande rappresenta per il Partito Comunista l'occasione concreta per affermare plasticamente la (nuova) prospettiva'. Sono solo quattro esempi, tutti presi in un solo giorno da diverse testate nel mese di settembre 2021, che testimoniano l’invasione di un termine del quale evidentemente doveva esserci un gran bisogno. Come se 'plasticamente' avesse riempito un vuoto di definizione e di espressività che andava evidentemente colmato. Ma è proprio così?
La plastica, quella contro cui oggi dobbiamo anche combattere una guerra decisiva – fra le tante altre - per la salvaguardia dell’ambiente, quella che, secondo un report recente del Wwf ha un costo sociale di 4000 miliardi in un anno (nel 2019 per l’intero ciclo di produzione, consumo e smaltimento: tanto quanto il pil della Germania), quella che, almeno nella sua versione monouso, è stata messa al bando dopo i sacchetti per la spesa, si chiama così perché deriva da un termine greco, plastikòs. Il verbo di riferimento è plasso, cioè plasmo, formo. E la plastikè tèkne è l’arte che riguarda il modellare. L’arte plastica per eccellenza è infatti la scultura e 'Valori plastici' fu il nome di una rivista d’arte edita a Roma nel 1918 in cui confluivano interessi e principi estetici della pittura metafisica (una pittura si potrebbe dire, pensando a certi quadri di De Chirico in cui sono di fatto rappresentate sculture) e di altre avanguardie europee.
Non tutta la plastica viene per nuocere, si potrebbe chiosare, ed è senz'altro a questa 'plastica' (la stessa cui ci riferiamo con l’espressione 'posa plastica' molto più che con l’espressione 'chirurgia plastica') a cui forse pensa chi fa continuo riferimento all’espressione 'plasticamente' intendendo, in fondo, 'evidentemente', 'chiaramente'. Senza contare che le mode, in cui rientrano anche certi modi di dire, fanno parte del modo in cui il nostro cervello, l’organo più plastico di tutti, che secondo le ultime ricerche continua a modificarsi anche ben oltre i 20 anni, apprende ed agisce.
Quella che resta immobile, quasi perenne e difficile da smaltire, come sappiamo, è invece l’altra plastica di cui abbiamo parlato, celebrata anche dal curioso nome scelto da John Lennon e Yoko Ono per la loro Plastic Ono Band, un omaggio, pare, alla grande fabbrica di plastica PET della famiglia di Yoko. In realtà un caso di continua mutazione, così tanto plastica da essere considerata band virtuale, perché i componenti cambiavano continuamente, lanciata in fin troppo plastiche e vertiginose sperimentazioni musicali tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70.
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