Più di un anno fa, in piena pandemia e quando ancora non era cominciata la campagna vaccinale, avevamo affrontato la parola ‘guerra’ che in quel momento veniva usata sempre più raramente nel contesto per il quale è nata: la seconda guerra mondiale, la guerra in Vietnam, la guerra in Afghanistan. Una parola entrata nel nostro vocabolario quotidiano, ordinario, abituale ma usata prevalentemente come metafora: la guerra all’inflazione, la guerra dei sessi, la guerra al virus. Ed è in questo senso che è stata usata in tante canzoni per esempio, compresa quella in cui Francesco De Gregori chiedeva ‘E adesso dimmi quando finirà la guerra?’ con riferimento al clima sociale di metà anni ’70 in cui poteva capitare che il pubblico fermasse l’esibizione di un cantautore aggredendolo fisicamente e minacciandolo di morte, come capitò proprio a lui nel 1976.
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L’invasione dell’Ucraina da parte dei russi ci ha riportato alla cruda realtà dell’uso di questa parola. Perché ne abbiamo fatto una metafora-chiave del modo di pensare e quindi di esprimerci? Perché ci viene facile parlare di vaccini come armi e trincee? E perché torniamo ad usare una delle espressioni più controverse degli ultimi decenni e cioè ‘guerra giusta’? Sembra che questo sia iscritto nel destino e nell’evoluzione della nostra stessa storia. Secondo il filosofo Emanuele Severino, scomparso nel gennaio del 2020, la guerra non è questa o quella, non è una guerra particolare ma è addirittura il modo in cui l’Occidente guarda le cose. Sulla questione dell’Occidente torniamo tra un attiamo ma intanto vediamo come Severino spiega la sua affermazione. Avendo rinunciato alla verità assoluta, l’Occidente avrebbe liberato il cosiddetto gioco delle volontà di potenza dando quindi al nostro pensiero e al nostro modo di agire la forma strutturale della guerra: se c’è volontà e se c’è potenza non può che esserci contrapposizione costante. Che poi si svolga con cannoni e bombe atomiche, con operazioni di spionaggio e avvelenamenti o raffiche (per restare alle metafore belliche) di fake news (che, come vediamo ogni giorno, sono parte integrante anche della guerra vera), è soltanto un cinico dettaglio dello spirito dei tempi.
Ecco perché non possiamo non dirci guerrieri. Anche se, per capire la differenza tra Occidente e Oriente, ammesso che ancora oggi questa differenza ci sia, basta mettere accanto i due più celebri trattati sulla guerra, quello del cinese Sun Tsu e del generale prussiano Carl von Clausewitz: il primo punta su tecniche dissuasive e ingannevoli, il secondo sull’annientamento violento dell’avversario. Nonostante questo, l’orientale Sun Tsu è spesso impiegato nella occidentalissima strategia di pianificazione aziendale e citato più spesso dai diavoli della finanza d’assalto che dai Navy Seals. Ma chi, all’origine della nostra storia, ha insegnato al mondo come fare la guerra, cioè i Romani, la chiamava in un altro modo: bellum. Curiosamente, la parola che invece è prevalsa è proprio quella dei nemici e dei distruttori del più grande impero dell’antichità occidentale. Guerra deriva infatti dal germanico werra ed è una parola barbara, introdotta dai popoli del Nord che ridussero l’impero romano a poco più di un deserto. Ha un suono più indicato per quello che vogliamo esprimere ancora oggi e in origine significa mischia, confusione.
Ecco forse perché, inconsapevolmente, ci piace così tanto usarla anche a proposito del coronavirus o in altri contesti non bellici, e perché facciamo un uso così generoso di parole derivate usando termini come guerriero e guerriera ogni volta che si tratta di sottolineare l’approccio alla vita di qualcuno, magari alle prese con una malattia. La realtà è che, evidentemente, come ha spiegato Severino, non possiamo farne a meno: nessuno, come dice un altro filosofo che ogni tanto citiamo, Friedrich Nietzsche, ‘salta oltre la propria ombra’. Nonostante il fatto che l’uso di questa parola in certi contesti, come è stato sottolineato, non solo diventi sempre più improprio ma addirittura impedisca un approccio corretto alla ‘battaglia’ che si deve sostenere, distogliendoci da quegli elementi di conoscenza che ci permettono di vedere per esempio la malattia per quello che è e dunque di demitizzarla, come è stato ricordato in un bell’articolo pubblicato sul sito di Wired da Francesca Modena citando Susan Sontag, la scrittrice americana autrice fra l’altro di ‘Malattia come metafora’ e ‘L’Aids e le sue metafore’.
Certo guerra non sembra la parola più adatta alle festività pasquali così come non sembrava adatta oltre un anno fa a quelle natalizie. Eppure una delle canzoni più dolci e cantate da 50 anni a questa parte è proprio quella ‘Happy Xmas’ che ha come estensione del titolo ‘War is Over’, la guerra è finita, uscita dalla penna e dal genio di una coppia che quelle metafore proprio non le amava: John Lennon e Yoko Ono.
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