L’odore dei granai di cui parla Zucchero in Diamante, la canzone scritta da Francesco De Gregori, sarebbe rimasta una nostalgica evocazione poetica, privilegio di chi vive in campagna o magari si occupa di raccolta e stoccaggio dei cereali, se la guerra in Ucraina non avesse restituito attualità ad espressioni sinistre come ’battaglia del grano’, riportando i granai, che custodiscono l’alimento base per tanta parte del mondo, in primo piano.
L’occupazione russa del porto di Mariupol e di gran parte della fascia costiera dell’Ucraina ha provocato come conseguenza il blocco di una notevole quantità di grano (i numeri oscillano parecchio: tra 2,5 e 4 milioni di tonnellate su una produzione complessiva annua che è di circa 24) e ha fatto parlare di ‘guerra del grano’, una guerra che, pur non provocando direttamente vittime, pur non potendo essere rappresentata con immagini scioccanti, desolate e violente, appare altrettanto primordiale e ingiusta perché rischia di privare una parte del mondo, per lo più povera, dell’alimento base. E’ questa la forza di una parola che leghiamo alla vita stessa almeno quanto l’acqua da quando, 10mila anni fa, alla fine del paleolitico, gli uomini, diventati sedentari, hanno cominciato a studiare le piante, il loro modo di riprodursi, come mettere a dimora i semi e seguire la loro crescita.
Non è un caso dunque che da una radice indoeuropea, gera- che significa tritare, proprio come si fa dal chicco macinato per ricavare la farina che serve fra gli altri e prima degli altri per quell’alimento base che è il pane, la parola si sia estesa a tutte le lingue senza grandissime variazioni: in latino è granum, in francese grain, in spagnolo grano, in portoghese grao, in rumeno griu, in irlandese gran. E anche le lingue germaniche e slave condividono la radice declinata però in corn o zirno (in russo zerno). E Andrea Marcolongo, autrice di Alla fonte delle parole, ci ricorda che nei secoli il seme del grano è stato anche unità di misura per quanto era considerato prezioso e valeva la cinquantaseiesima parte di un’oncia. Sempre Marcolongo richiama la dea color del grano che per i greci era Demetra, un nome che deriva anch’esso da una radice indoeuropea, der-, che significa ’colei che ha in sé il principio della crescita’.
Tra i latini Cerere, l’omologa di Demetra, era invocata per proteggere tutto ciò che è vita. Il grano come riferimento primordiale, basilare, vitale, legato all’essere vivente e al suo nutrimento, alla sua crescita, nonché a quello che a tutto questo immaginario è più vicino, cioè l’amore, si ritrova infatti in tanti richiami e immagini dell’arte e dell’intrattenimento: dal celebre passaggio scritto da Mogol per Pensieri e parole di Lucio Battisti ai giallissimi campi di grano, compreso quello con volo di corvi, di Vincent van Gogh fino alla scena finale citatissima del Gladiatore di Ridley Scott, in cui Massimo Decimo Meridio, tornato uomo libero, accarezza il grano nelle vicinanze della sua casa (elemento di appartenenza, fondativo, che indica stabilità a cui inevitabilmente il grano si lega).
E d’altra parte una delle filastrocche-ninnananne più celebri che recitiamo ai nostri bambini è in realtà un dialogo proprio con un chicco di grano e il senso è l’equiparazione tra la giovane vita che sta crescendo e quella del chicco di grano: ‘Chiccolino dove stai? / Sotto terra non lo sai? /E Lì sotto non fai nulla? / Dormo dentro la mia culla / Dormi sempre, ma perché? /Voglio crescere come te / E se tanto crescerai, Chiccolino, che farai? / Una spiga metterò e tanti chicchi ti darò’. In altri termini, il ciclo della vita
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