Se in Italia lavora solo una donna su due e siamo in coda alla classifica europea per tasso di occupazione femminile, il problema non riguarda le donne, l’emergenza è del Paese. La denatalità è solo la conseguenza di non aver affrontato da decenni il tema con politiche di welfare adeguate, spiega Linda Laura Sabbadini, pioniera delle analisi statistiche di genere presso l’Istat, in un podcast ANSA insieme alle voci dell'economista femminista Azzurra Rinaldi e della studiosa di stereotipi di genere Ella Marciello.
“Non servono misure spot come i bonus”, concordano la statistica e l'economista, ma azioni di sistema continue: verso l’occupazione femminile e l’autonomia dei giovani, i servizi per l’infanzia, l’assistenza agli anziani e ai disabili, contro gli stereotipi che ancora condizionano la vita delle donne fin da bambine.
Il cambiamento innegabile del ruolo delle donne nella società dal Dopoguerra ad oggi, a passi lentissimi, è frutto praticamente esclusivo della forza femminile, per l’investimento nella formazione e nella cultura che le ha portate a volersi realizzare su tutti i piani e a crescere, in professioni da cui prima erano escluse.
I dati italiani e quelli europei
Quasi metà delle donne nel nostro Paese non lavora (51% nel 2022, 53% nel 2023). Secondo l’Istat, ci sono 10 milioni di donne occupate, quasi un milione in più in dieci anni. Ma le disoccupate sono 900 mila e ben otto milioni le inattive, quelle che il lavoro non lo cercano proprio. Grande poi il divario che resta tra Nord e Sud del Paese.
Anche la differenza con la media Ue a 27 è enorme. In Germania il tasso di occupazione femminile è oltre il 70%, in Francia è al 68%. Secondo dati di Openpolis, l’Italia è tredicesima in Europa per uguaglianza di genere, ben al di sotto di Francia e Spagna, ma sopra la Grecia. Il nostro Paese, tuttavia, è quello che ha registrato il miglioramento più evidente dal 2013 (+14,9%).
La vita della donna è una corsa a ostacoli, dai primi anni di vita fino alla pensione. Prima incontra stereotipi culturali che da bambina la allontanano dalla scelta successiva di facoltà scientifiche, poi arriva nel mondo del lavoro con una professione tendenzialmente meno remunerata. La maternità è lo spartiacque: segna uno spezzettamento della carriera, quando non la perdita del lavoro. Quindi infila part-time involontari e contratti precari. Il divario retributivo completa il quadro, insieme alla segregazione verticale: ovvero quel tetto di cristallo dei ruoli apicali al maschile, ricorda Azzurra Rinaldi, economista femminista, docente di economia politica all’università Unitelma Sapienza di Roma e direttrice della School of Gender Economics. Alla fine del percorso lavorativo, la donna avrà fatto sacrifici enormi per ricevere una pensione inferiore all’uomo del 40%, secondo dati INPS.
Come influiscono gli stereotipi
Già dalla scuola primaria le bambine si imbattono in stereotipi culturali che condizionano le scelte successive. Bambine e bambini, infatti, sono tuttora inconsapevolmente indirizzati a ruoli differenti. Sui libri di testo della primaria ci sono ancora la mamma che stira e cucina e il papà che lavora, e magari è capo, “una visione anni Cinquanta - nota Sabbadini - che ormai da tempo non è pensabile. Anche perché oggi le famiglie senza anche il reddito delle donne non ce la fanno: facilmente, soprattutto se ci sono figli, cade sotto la linea di povertà”.
Si dovrebbe cominciare dalle scuole primarie ad avere metodi di insegnamento diversi e culturalmente contro gli stereotipi. Poi, in qualsiasi corso di laurea, dice Sabbadini, bisognerebbe studiare come materia d’esame gli stereotipi di genere: eliminerebbe almeno la trasmissione di quelli inconsapevoli, in cui siamo immersi. Serve la formazione dei docenti, degli editori, dei pubblicitari, di tutti coloro che possono veicolare gli stereotipi.
Ancora poche ragazze laureate STEM
La conseguenza è che sono ancora troppo poche le ragazze che intraprendono i percorsi di laurea STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica). Secondo un’analisi di Deloitte, le studentesse italiane iscritte ad un corso di laurea STEM sono solo il 14,5% di quelle che frequentano l'università, molto al di sotto della media europea.
Linda Laura Sabbadini si è appassionata alle materie scientifiche alle scuole medie inferiori, grazie alla professoressa Emma Castelnuovo, figlia del matematico Guido Castelnuovo. “La mia insegnante considerava la matematica: logica, intuizione, creatività. Con lei si giocava con i numeri, non era uno studio mnemonico e nessuno andava male. Le materie scientifiche sono fantastiche e creative”, dice Sabbadini, rivolgendosi alle bambine e alle ragazze di oggi, perché ci si buttino a capofitto, ma soprattutto agli insegnanti, perché aiutino a smontare alcune false credenze.
Quindi, anche se sono molto brave nelle materie scientifiche, le ragazze ad oggi continuano a prediligere percorsi umanistici ma in questo modo alcune professioni, quelle del mondo scientifico, saranno precluse: sono proprio le professioni più retribuite e meno precarie rispetto alle altre. Per invertire la rotta – spiega Azzurra Rinaldi – è necessario un lavoro culturale, di educazione, che non possiamo lasciare solo alle scuole. Sono le istituzioni che devono fare un lavoro sulle famiglie”.
Le attività di cura non retribuite
Le divisioni dei ruoli nella famiglia è ancora asimmetrica, nonostante i passi avanti fatti. A fine anni Ottanta l’80% del lavoro di cura (verso figli, genitori, anziani, disabili, la casa stessa) era sulle spalle delle donne. Oggi siamo al 67%. Ma se si vanno ad analizzare i dati si vede che è migliorata “più perché le donne non ce la facevano più ed hanno tagliato quel lavoro di cura, che per una reale partecipazione maschile”, analizza la statistica Sabbadini.
La legge sugli asili nido pubblici risale al 1971, ma ad oggi va al nido solo il 28% dei bimbi. Siamo lontani dall’obiettivo europeo. Eppure ogni euro investito in strutture per l’infanzia, tornerebbe indietro allo Stato 13 volte, ricorda Rinaldi.
“Bisognava intervenire anche con il sostegno agli anziani e ai disabili. Invece se ne occupano sempre le donne, le vere caregiver del Paese. Bisognava intervenire con i congedi di paternità adeguati, non a dieci giorni (e prima erano due). Ci sono Paesi che hanno il congedo parentale paritario tra donne e uomini, cosa che aiuta anche gli uomini ad entrare nella relazione con il figlio e nel ruolo di padre. Il congedo viene anche pagato al 30% del salario e siccome – di norma – lo stipendio più alto è quello dell’uomo, non conviene neanche alla donna che l’uomo lo prenda. Nell’80% dei casi quindi il congedo viene chiesto dalla donna.
Dal divario retributivo a quello pensionistico: la forbice aumenta con l’età
Il divario di genere cresce all’aumentare della vita lavorativa e dell’età. Le lavoratrici, se hanno un figlio, nel 20% dei casi lasciano il lavoro subito dopo. Se rientrano sono spessp costrette a prendere il part-time perché i servizi non ci sono e il congedo parentale non è sufficiente. Così cominciano a guadagnare di meno, hanno lavori più precari, interruzione lavorative. Il part-time in Italia è non voluto per il 60%, a differenze degli altri Paesi europei. Tutto questo pesa nel percorso lavorativo delle donne che non solo scelgono (a causa degli stereotipi) lavori meno retribuiti, ma hanno anche una carriera più spezzettata e svolgono, alla fine dei conti, un numero di ore di lavoro retribuite più basso dell’uomo. In finale si arriva ad avere una differenza di pensione tra uomini e donne del 40%, secondo dati INPS. La donna fa enorme sacrifici ma aumenta la differenza salariale perché aumenta lo spezzettamento della carriera. Per l’uomo il tempo gioca a favore della carriera.
Combattere la denatalità
I bonus sono misure temporanee, "mentre abbiamo bisogno di una strategia permanente", concordano l'economista Rinaldi e la statistica Sabbadini: incrementare i servizi, aumentare i congedi parentali, lottare contro gli stereotipi di genere.
“Il bonus non incide sulle scelte future. Siamo al minimo storico per numero di nuovi nati e pochi figli possono mettere a rischio le pensioni di una popolazione anziana. Ma la denatalità "è la conseguenza dell’assenza di politiche di welfare su donne e autonomia dei giovani, che non hanno ancora recuperato il tasso di occupazione di prima della crisi del 2009", avverte Sabbadini. Finché non si invertirà la rotta su donne e giovani, "la natalità non riprenderà a crescere e non perché le donne italiane non vogliono figli", specifica. Ne vorrebbero in media due, ma siamo a 1,2. Lo scarto più grande di tutti i Paesi occidentali. Tra l’altro c'è un altro tabù da sfatare: quando il tasso di occupazione femminile è più alto, anche il tasso di natalità lo è.
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