11 MARZO - Si inizia a entrare nel vivo: ormai le parole devono lasciare il posto alle scelte. La settimana si presenta densa di contenuti e il Quirinale avrà i primi elementi di valutazione. Si parte con la direzione del Pd che, liberatosi di Matteo Renzi (ma non dei renziani) con le sue dimissioni, può avviare una gestione collegiale. Il partito dovrà per forza maturare una posizione chiara su quale sponda è meglio stare per ricostruirsi. Una scelta non facile quella dell'opposizione dura e pura visto che il grande perdente delle elezioni sa di poter ancora essere l'ago della bilancia di un Governo di coalizione.
Sergio Mattarella assisterà con attenzione ai lavori della direzione del Pd e al primo vero appuntamento politico del post-voto che si avvicina, l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Proprio sulla Camera alta l'attenzione del Colle è vigile. Oltre ad essere la seconda carica dello Stato (basti pensare che è il presidente del Senato a sostituire il presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo), la guida di palazzo Madama è tradizionalmente considerata una figura di garanzia e di riserva per la Repubblica, che può essere usata per mandati esplorativi o come ultima carta per formare un Governo di ampia coalizione. Inevitabile quindi che sarà importante annotare sul taccuino presidenziale non solo chi verrà eletto ma anche come: se il Pd continuerà a tenersi fuori si potrebbe concretizzare una secca spartizione tra "vincitori".
Tradotto, il Senato al centrodestra e la Camera ai Cinque stelle. Sembra facile ma non lo è. Luigi Di Maio evoca con forza la nascita della terza Repubblica ma dovrà gestire la crisi con i farraginosi meccanismi della prima. Mentre al Senato dopo le prime tre votazioni si passa al ballottaggio tra i primi due che hanno preso più voti (quindi teoricamente il centrodestra potrebbe essere autosufficiente), ben diversa è la storia della Camera. A Montecitorio serve quella maggioranza assoluta che il voto del 4 marzo non ha fornito e lì potrebbe rientrare in gioco il Pd. Ma anche al Senato non è cosi semplice. Il nome di chi lo guiderà potrebbe rivelarsi la cartina di tornasole dei rapporti di forza interni al centrodestra. Non a caso in queste ore girano forti due nomi: quello del leghista di ferro Roberto Calderoli e quello del forzista Paolo Romani. Una bella differenza per Silvio Berlusconi. E forse anche per il Quirinale dove però, è bene ricordarlo, acquisite con preoccupazione le difficoltà di queste ore, un qualunque risultato viene letto come meglio del nulla, visto che sia Salvini che Di Maio sono entrati nella trincea di una guerra d'altri tempi. "Io non sto smaniando, se si realizza il programma, bene. Se bisogna inventarsi pateracchi o minestroni, non sono assolutamente a disposizione", ha confermato il leader della Lega. Di Maio è meno duro, cita De Gasperi e la Dottrina sociale della Chiesa mostrando massima apertura pur di realizzare il "bene comune".
Ma non si capisce bene chi può raccogliere quest'appello. Almeno per ora.