"Qui è bello, ma rivoglio il mio asilo, i miei amichetti". La vocetta è quella di Yannay, 4 anni, sfollato in un albergo del centro di Tel Aviv insieme con la famiglia da Kiryat Shmona, cittadina israeliana del Nord, al confine con il Libano. Lui corre tutto il giorno su e giù per l'hotel, fa baccano con decine di bambini evacuati da quando Hezbollah ha preso a lanciare razzi da oltre confine. Appena la sirena d'allarme comincia a ululare corre con gli altri nel rifugio, prende i palloncini dalla scatola e li fa scoppiare, così il rumore copre l'esplosione di un missile da Gaza intercettato da Iron Dome.
Gli evacuati dal Sud e dal Nord di Israele sono decine di migliaia, portati in alberghi di tutto il Paese, alcuni già dopo l'attacco del 7 ottobre, altri, provenienti dalle città al confine libanese, una decina di giorni fa. "A nessuno di noi è stato detto per quanto tempo dovremo restare, all'inizio hanno parlato di due mesi, ora quando l'amministrazione ci contatta dice che il periodo si allunga", si stringe nelle spalle Lia, studentessa di 23 anni, spiegando che la sua casa è a cinque chilometri dalle postazioni di Hezbollah, "adesso ho bisogno solo di sicurezza". Urgenza condivisa dagli sfollati che comunque, nonostante le loro vite stravolte, sentono di non avere diritto a lamentele: "Noi siamo vivi, non siamo ostaggi in un tunnel". Ma è vero che stanno vivendo un tempo vuoto, senza casa, lavoro, studio. Nel vortice di emozioni che cercano di comunicare parlando con l'ANSA c'è un altro sentimento davvero difficile da tirare fuori dal cuore: "Sono confuso. Da Gaza venivano le persone a lavorare a Sderot. Io sono di sinistra, ho sempre pensato che bisognava aiutare gli abitanti della Striscia a stare meglio, che è importante che abbiano un lavoro, possano pagare il matrimonio dei figli, regalargli una casa. Credevo che fosse il modo forse non per diventare proprio amici, ma per creare una via per la pace. Ora sono arrabbiato con Hamas", dice quieto Moshe, 40 anni, nell'hotel insieme con la fidanzata e il cane, professore di musica al college di Sderot, città di 30 mila abitanti a un chilometro da Gaza, "ma soprattutto non so che cosa pensare dei palestinesi che prima del 7 ottobre venivano a lavorare con noi e poi quel giorno li abbiamo visti nei video che entravano mentre i miliziani sparavano alle persone per strada e andavano dritti a saccheggiare le abitazioni. Case che conoscevano bene. E' come se un sogno fosse svanito nel nulla, forse sono io che non avevo capito. Perché se con le persone prendi il caffè insieme, chiacchieri, non riesci a immaginare che il giorno dopo diventino nemici".
Non è neanche uno sfogo quello di Moshe, dal suo volto si capisce che per davvero non avrebbe voglia di cambiare mentalità. Invece per Yossi, 46 anni, elettricista di Kiryat Shmona le idee che aveva sono sparite e difficilmente tornerà indietro: "Noi avevamo fiducia nella gente di Gaza che lavorava da noi. Volevamo la pace con loro, non la guerra". E neppure Bar, 28 anni, studente vuole più saperne: "Io lavoravo con i palestinesi della Transgiordania. Ora non siamo più amici". "Durante la guerra con il Libano del 2006 avevo pensato di andare via dal mio Paese. Ma dove? Dove possiamo andare?", allarga le mani Sarah, 31 anni, docente di cinema all'high school di Kiryat Shmona. E allora il discorso cade su Benyamin Netanyahu: gli evacuati danno per certo che nessuno lo voterà mai più: "Non ci ha protetto". A quel punto tra gli adulti irrompe Halel, una bambina di 11 anni che da tre settimane ha dovuto capire troppe cose, e vuole dire la sua all'ANSA: "Alla mia famiglia Bibi piace ancora. Ma ora io voglio tornare a casa. Senza guerra'.
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