Una pietra poggiata sul tavolo regge il cellulare mentre tra gli ulivi del giardino tiene il suo primo discorso in diretta social. "Voglio salutare le persone di Gaza, abbiamo già vinto ma non ci fermeremo fin quando non avremo cacciato gli occupanti e tutti saranno liberi, compreso mio fratello". È fuori dalla prigione soltanto da poche ore Hanan Al Barghouti, palestinese di 52 anni, sorella del comandante Nael Al Barghouti, un anziano membro di Hamas. Lei è uno dei 39 prigionieri al centro del primo scambio con gli ostaggi delle brigate Qassam e lo striscione di bentornata che pende dal tetto della sua villa a Kobar è un nuovo manifesto di lotta armata: oltre alla sua foto c'è l'immagine di miliziani che puntano i kalashnikov contro due soldati israeliani arresi e la scritta 'Grazie alla nostra resistenza, onore della nostra nazione. Abbiamo la responsabilità di difendere Gerusalemme e i prigionieri'.
"Fronteggiamo con i nostri mezzi quasi artigianali uno degli eserciti più potenti. Questa terra è nostra e noi abbiamo già vinto. Dovranno rilasciare tutti i detenuti", dice Hanan in un'intervista all'ANSA. Da quattro mesi si trovava nel carcere femminile di Damon e dal 7 ottobre - racconta - le misure sono diventate per tutte molto più dure: "dovevamo sottoporci alla conta dei prigionieri quattro volte al giorno, ci hanno ridotto le razioni di cibo e tolto l'ora d'aria senza farci più uscire dalle celle, che sono aumentate: nella nostra da sei detenute siamo passate ad undici. Non avevamo vestiti invernali e per la mancanza di alcuni materassi qualcuna era costretta a dormire a terra".
Poi ricorda il giorno della liberazione: "Stavo leggendo il Corano come tutte le mattine, quando ho sentito un brusìo ed è arrivato il capo delle guardie. Sono stati letti tre nomi tra cui il mio: non sapevamo nulla di quello che stava succedendo fuori perché da settimane non abbiamo più neppure la tv o la radio. A noi che uscivamo tra gli spintoni dei carcerieri hanno messo manette e ceppi per poi portarci nei blindati dalla prigione sul Monte Carmelo (l'istituto di Damon - ndr) a quella di Ofer. Nel tardo pomeriggio siamo salite sui bus della Croce Rossa e da lì abbiamo visto i lacrimogeni sparati sulla folla dai soldati israeliani. Ero davvero sicura di essere libera solo quando sono arrivata a Betania, dopo aver superato il check point".
Il volto che esce fuori dal khimar bianco è austero, Hanan tenta di non far trasparire emozioni fino a poi cedere nella commozione: "certo che sono felice, ma soffro per le altre persone in carcere". Poi si aggiusta l'abito nero e riparte sicura: "È l'inizio della liberazione per tutti. Vogliamo un nostro stato che arrivi dal mare al Giordano, da nord a sud, solo così i sionisti saranno sconfitti. Anche i nostri bambini si solleveranno per resistere all'occupazione".
Nella sua casa ci sono cartelloni con le foto di tante persone della famiglia, tutte ancora detenute, alcune da decenni come suo fratello Nael, uno dei palestinesi in carcere da più tempo. Accusato dell'omicidio di un uomo dell'intelligence e per il quale un tribunale israeliano aveva ordinato di completare la condanna all'ergastolo dopo la sua liberazione assieme ad altri 1.026 per lo scambio del 2011 con il soldato Shalit. Poi nel 2014, dopo l'omicidio di tre giovani israeliani uccisi da una cellula di Hamas, Nael fu nuovamente arrestato senza essere più rilasciato: è in cella da 44 anni. Nella villa di Hanan ci sono quasi solo donne, fa notare suo marito Mohamed: "gli altri, compresi i nostri quattro figli, sono tutti in cella. Io sono l'unico uomo della famiglia rimasto ancora libero".
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