E' visibile l'angoscia dei palestinesi in Egitto per la ripresa dei combattimenti, ma la maggior parte di loro, nonostante tutto, vuole tornare a casa, anche dove si muore, o una casa non c'è più. Molti di loro sono feriti o malati che sono riusciti a raggiungere, grazie agli sforzi egiziani e delle organizzazioni internazionali, gli ospedali di Al Arish o del Cairo. La maggior parte, quasi 4 mila persone, è tuttavia composta da studenti, lavoratori, immigrati, impossibilitati a tornare in patria dal 7 ottobre.
Appena il valico di Rafah ha riaperto, poco a poco oltre 400 (almeno il 10%), è tornato nella Striscia, approfittando della tregua. E stamattina, ignorando che la parola era tornata alle armi, erano in 130 a tentare il passaggio. Non ci sono riusciti, sono stati rimandati indietro. E' il Sinai il centro di chi entra ed esce, un deserto inframmezzato di piccole città: tra queste Al Arish, diventata via della speranza con un ospedale pieno di feriti palestinesi e un aeroporto dove ogni giorno arrivano tonnellate di aiuti, che spesso, ora men che meno, non riescono a raggiungere la Striscia. Sulla via di accesso, centinaia di camion in coda da giorni. Il primo incontro in ospedale è con un bambino sui 7 anni, sul viso i chiari segni di schegge provocate da un'esplosione. Lo accompagna il padre: entrambi ci guardano senza una parola, come a chiedere il perché di tutto questo.
Poi incontriamo Rukhsana: 40 anni, è a letto e ha voglia di raccontare: "Sono arrivata qui il 21 novembre da Khan Younis. Ci hanno bombardato e mio figlio è morto, mio marito è ricoverato lì. Io sono rimasta ferita a una gamba. Il resto della mia famiglia è a Gaza. All'ospedale Nasser di Khan Younis, ci sono molti feriti e non possono curarci tutti, la situazione in tutta Gaza è catastrofica". Ma il suo sogno è di tornare. In un Paese smembrato, il peggior dispiacere è il distacco dalla famiglia, la mancanza di notizie, la solitudine. "Nell'ospedale pubblico di Al Arish - ci spiega un medico - riceviamo casi di fratture gravi, ferite varie e ustioni, bambini prematuri, casi in terapia intensiva. Secondo le istruzioni del ministro della Salute, abbiamo fornito squadre mediche apposite, qui e in altre strutture, consulenti universitari e specialisti".
Alcuni vengono portati in Turchia o negli Emirati. Intanto, all'aeroporto di Al Arish ferve il lavoro degli addetti allo scarico degli aiuti. Centinaia di pacchi con le insegne dell'Ue, dell'Oim, dell'Unrwa. Mentre tra gli autisti dei camion in fila regna una calma rassegnata e irreale. Chi beve il tè, chi telefona a casa o non fa nulla al sole del deserto alle 4 del pomeriggio. Viene dall'Egitto il 70% degli aiuti, per espresso volere del presidente Abdel Fattah al-Sisi, poi, dicono si fermano ai controlli israeliani. In tutto l'Egitto c'è una forte solidarietà per i vicini più sfortunati. Ogni tanto al valico di Rafah verso la Striscia entrano ambulanze: stanno arrivando dei feriti. Mentre dall'altro lato, alla spicciolata, auto stracolme di palestinesi con le valigie sul tetto chiedono solo di tornare nel loro Paese. Di avere un loro Paese. Un popolo che chiede di esistere nonostante gli errori di Hamas.
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