Dal lato egiziano di Rafah non si vede il fumo dei bombardamenti, ma la sofferenza a pochi metri, quella dei palestinesi spinti dal lato della Striscia dai raid israeliani, si tocca con mano. Hanno potuto constatarlo di persona anche una ventina di rappresentanti dei Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu che ieri hanno voluto visitare i feriti all'ospedale di Al Arish, i depositi di aiuti traboccanti, e sapere tutto sugli ostacoli all'invio di aiuti, sui feriti, sulle lunghe file di camion in attesa.
La delegazione è arrivata di prima mattina da Abu Dhabi. Alla guida il Commissario dell'Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) Philippe Lazzarini e la vicecoordinatrice per il Processo di pace in Medio Oriente Lynn Hastings. Con lui, i rappresentanti di tre Paesi con diritto di veto: Russia, Cina e Gran Bretagna, oltre a quelli di vari Paesi membri non permanenti (Armenia, Corea del Sud, Brasile, Ecuador, Ghana, Malta, Mozambico, Svizzera). Una numerosa delegazione quella degli Emirati Arabi Uniti, promotori dell'ultima proposta di risoluzione bocciata dagli Stati Uniti. Grandi assenti, infatti, Washington e Parigi, convitati di pietra di questa missione.
E' a loro, e ad Israele, che sono stati rivolti gli appelli ad un cessate il fuoco umanitario che non può più attendere. Un appello che nelle parole degli ambasciatori di Cina e Russia ha assunto toni inequivocabili: "Ormai è chiaro che quella in atto è una inaccettabile pulizia etnica", ha tuonato il russo Vasilij Nebenzja. "Quando è troppo è troppo", gli ha fatta eco il cinese Zhang Jun, dopo la visita ai feriti all'ospedale di Al Arish.
Tutta la delegazione è apparsa emotivamente colpita alla vista dei bambini con gli arti dilaniati dalle esplosioni, gli occhi attoniti e vuoti di chi ne ha viste troppe e non spera più. Alcuni, hanno raccontato i sanitari, hanno perso tutto e tutti: casa, parenti, genitori e fratelli. E non sanno cosa ne sarà di loro quando saranno guariti. Il loro recupero psichico è uno dei problemi che prima o poi dovrà essere affrontato, dicono i medici.
Subito prima c'era stata una breve riunione a porte chiuse all'Università del Sinai, a cui hanno partecipato anche rappresentanti egiziani e palestinesi. "A Rafah sono ammassate un milione e mezzo di persone, più della metà del totale dei palestinesi - ci dice il presidente della Mezzaluna - in condizioni disumane: dormono per strada e all'alba si mettono in fila per ricevere un po' d'acqua, un po' di pane, del sapone per lavarsi".
Dopo l'ospedale, la visita conduce ai depositi di aiuti, strapieni di colli sugli scaffali e sui pallet, con le insegne dei Paesi di mezzo mondo, dall'Asia all'America latina.
"Dobbiamo fare in fretta - è l'accorato appello di un addetto della Mezzaluna -. Non abbiamo più spazio per gli aiuti che arrivano continuamente. C'è anche cibo, medicinali, merci deperibili, che vanno trasportati con i camion frigoriferi che gli israeliani non fanno passare".
Al valico attende una ragazzina egiziana dell'International Youth program. Vestita di bianco e con in mano la Carta istitutiva delle Nazioni Unite e quella dei Diritti dell'uomo fa un discorso da grande sulla necessità della pace. L'accompagnano alcuni adolescenti con le bandiere egiziane e palestinesi. Gli ambasciatori vogliono farsi fotografare con loro.
Ultima tappa, la visita all'impianto di desalinizzazione dell'acqua. E' il tramonto sul Mediterraneo. Ad est si intravede Rafah palestinese. Ma il dolore di chi ormai vive per la speranza della pace e di un po' d'acqua da qui si può solo immaginare guardando il filo spinato che arriva fino al mare.
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