(di Paolo Biamonte) Di quella
straordinaria generazione di chitarristi inglesi nati nella
prima metà degli anni '40, che ha posto le basi del rock moderno
fondando di fatto la figura del "guitar hero", Eric Clapton, che
lunedì compirà 70 anni, è forse l'unico riuscito a raggiungere
uno status di concertista al di sopra di ogni categoria. La
naturalezza con cui Clapton passa dall'adorato blues di Robert
Johnson alla musica indiana di Ravi Shankar (come accaduto per
il concerto omaggio al suo grande amico George Harrison) al jazz
con Wynton Marsalis senza mai perdere nulla della sua
naturalezza e della sua comunicativa ha pochi eguali. Clapton,
che celebra i suoi 70 anni con la pubblicazione con "Forever
Man", un cofanetto antologico con 51 tracce che coprono 30 anni
di carriera, è una leggenda ma è riuscito a mantenere una grande
freschezza di idee anche se, nel giugno 2014, ha dichiarato da
Uncut di essere stanco dei viaggi e dei ritmi delle tournée. "Ci
sono un sacco di cose che vorrei ancora fare, ma sto pensando
anche alla pensione. Penso di potermi permettere ancora di
registrare ma non voglio diventare imbarazzante sul palco - ha
detto - la mia vera battaglia sono i viaggi se potessi solo
suonare nei paraggi, potrei anche andare avanti". Se prendesse
questa decisione sarebbe veramente un peccato perché ha
raggiunto un livello che trascende la sua storia ed è diventato
anche un cantante impeccabile. A ben vedere, la sua è la storia
di un individualista insofferente alla vita nella band che ha
alle spalle esperienza decisive per l'evoluzione del rock:
l'inizio folgorante con i Bluesbreakes di John Mayall (il mai
troppo lodato mentore della storia del rock blues inglese), gli
Yardbirds, la gloriosa quanto tempestosa vicenda con i Cream, la
prima super band della storia, i Blind Faith, Delaney & Bonnie,
Derek & The Dominos (dove incontrò Duane Allman) sono tutte
esperienze durate poco. Non è un mica un caso che rispose no
all'offerta di entrare nei Beatles quando Harrison se n'era
andato: era troppo amico di George (che nel frattempo era
rientrato) e, come racconta lui stesso in uno degli splendidi
Dvd "Beatles Anthology" non era fatto per suonare in una band.
Però non molto tempo dopo accettò di far parte del gruppo che
suona nel primo album della Plastic Ono Band di John Lennon e
Yoko Ono.
Al pari dei suoi colleghi coetanei, anche lui ha alle spalle
qualche disastro esistenziale: la scoperta di essere stato
cresciuto dai nonni e non dai genitori, che quella che era
accanto a lui era la madre e non la sorella, il padre mai
conosciuto, la droga e l'alcolismo che l'avevano praticamente
portato lontano dalla musica, il rimorso di essersi innamorato
della moglie di George Harrison (proprio questa vicenda ha
ispirato "Layla", uno dei suoi capolavori). Da tutto questo ne è
uscito felicemente imboccando la strada che lo ha portato fino
ai nostri giorni, passando anche per la tragedia della morte
assurda di Connor, il figlio avuto da Lori Del Santo,
precipitato dalla finestra di un grattacielo. Da quella
esperienza è scaturito "Tears In Heaven", uno dei titoli più
famosi del suo repertorio. Nel frattempo ad Antigua ha fondato
una clinica per il rehab chiamata Crossroads, come il capolavoro
di Robert Johnson e il festival che ogni anno organizza
chiamando i migliori chitarristi del pianeta. A quel festival ha
invitato anche il suo amico Pino Daniele, cui ha dedicato un
brano, "Pino 5", in occasione della morte del musicista
napoletano. Nonostante si fossero lasciati a colpi di minacce di
morte, ha vissuto in modo serafico la reunion dei Cream
(certamente Ginger Baker e Jack Bruce ne avevano più bisogno di
lui) per quattro concerti nel 2005 alla Royal Albert Hall di
Londra. Lo chiamano da sempre "Slowhand" per la fluidità dello
stile e la chiarezza del fraseggio, il suo nome è da decenni un
sinonimo di chitarrista virtuoso, il suo aplomb così British e
la sua musica sono quanto di più lontano dall'idea di pensione
si possa immaginare.
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