"Per riconoscere la santità di una persona, la Chiesa ne valuta la vita, le virtù umane e spirituali, e, quindi, verifica anche se abbia compiuto qualche miracolo.
Nel caso di San Costanzo, il 'miracolo' c'è e si rinnova ogni anno proprio in questo riunirsi della città, perfino a prescindere dalla fede personale.
Siamo partiti dal
nostro Comune, abbiamo camminato fra chiese, università,
biblioteche, luoghi di ristorazione e negozi, monumenti e
palazzi che, prima e più ancora di un museo a cielo aperto,
esprimono la cultura e la storia di una comunità, innervata
dalla fede cristiana: la stessa fede che ha dato al nostro
patrono fedeltà nel servizio e forza nel martirio": lo ha detto
l'arcivescovo di Perugia, Ivan Maffeis, dell'omelia tenuta nella
celebrazione dei Primi vespri del giorno della vigilia della
festa del patrono, San Costanzo, il 28 gennaio pomeriggio, nella
basilica a lui intitolata e dove sono custodite le sue reliquie.
"Dove manca questo orizzonte, dove non c'è comunità - ha
proseguito - le case diventano alberghi, le piazze cessano di
essere luoghi di incontro, le strade si risolvono in percorsi a
ostacoli tra il traffico e le buche. Dove non c'è comunità,
cresce l'anonimato di luoghi frequentati da individui che non si
riconoscono, 'eremiti sociali', ricurvi in maniera quasi
patologica sui propri schermi digitali. Per usare immagini
bibliche, la città diventa una Babele, una Babilonia,
attraversata da segni di insofferenza, che parlano nell'aumento
delle povertà e delle disuguaglianze, come pure in un'incertezza
esistenziale da cui nessuno è esente, a partire dai nostri
ragazzi. Rispetto a Babele, questo nostro ritrovarci rappresenta
davvero un miracolo, che dà corpo al desiderio e alla
disponibilità di sentirsi comunità, che condivide valori,
prospettive, diritti e doveri; comunità che si 'pensa' dentro un
futuro comune, da costruire insieme".
"Insieme. Perché, come ci ricorda San Basilio, di poco
successivo al nostro San Costanzo - - ha aggiunto - 'nulla è
così specifico della nostra natura quanto l'entrare in rapporto
gli uni con gli altri, l'aver bisogno gli uni degli altri'.
L'altro ci è necessario. È l'unica via che abbiamo per trovare
noi stessi. Tutto ciò che nega la prossimità e l'incontro,
l'accoglienza e l'inclusione non ha a che fare con la verità
della città, ma con la paura, che contrappone e sfilaccia, che
chiude porte e cuori, consegnando a nuove solitudini.
La ricchezza della comunità ci è testimoniata da tante persone,
che - nelle nostre parrocchie, nella Caritas, nei movimenti,
nelle istituzioni civili, nelle forze dell'ordine, negli ordini,
nelle associazioni, nei rioni, nelle confraternite, nelle
fondazioni… - con umiltà e dedizione, con competenza e spirito
di servizio accendono la vera luminaria. Sono luci di quella
solidarietà corale, che costituisce l'identità e la spina
dorsale della nostra città.
La comunità rimane il vero capitale, la dimostrazione di come
nessun luogo - comprese le zone più periferiche della città,
comprese quelle che ruotano attorno alla stazione ferroviaria -
sia destinato a diventare un 'non luogo'", finché ci sarà
qualcuno attento a prendersene cura con responsabilità.
Di questo sguardo vive la città. Di un abitare, fatto di
custodia e di cura.
È questo sguardo che rovescia la logica egoistica di Babele e di
Babilonia e ci aiuta a tendere a quella città che la sacra
Scrittura chiama Gerusalemme celeste, in cui il nostro cammino
troverà finalmente casa".
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