(di Stefania Passarella)
La trasfigurazione del sé nel
mondo digitale, in un rapporto di simbiosi tra reale e virtuale
che sfocia nella dipendenza e nel tentativo disperato di
liberarsene. È il baricentro di "Waves", opera del coreografo
Cheng Tsung-lung che ha debuttato in prima europea all'apertura
della 18/ma Biennale Danza di Venezia. Un lavoro collettivo
armonico, fluido, creato nel 2023 per l'anniversario dei 50 anni
della compagnia taiwanese Cloud Gate Dance Theatre, considerata
la migliore in Asia e tra le più acclamate al mondo in ambito
contemporaneo per la qualità del movimento e per la capacità di
unire lo stile occidentale e la gestualità delle pratiche
orientali.
Uno spettacolo che tiene incollati al palco sin dai primi
istanti, con l'ingresso dei danzatori strappati alla vita reale
da una ragnatela di connessioni digitali. Come usciti dal
bozzolo setoso di una crisalide. E prende vita il duetto tra
ballerino e alter ego digitale. Con una differenza rispetto ad
altri lavori concettualmente simili. Sul palco i ballerini in
carne e ossa, 12 interpreti, interpretano il sé, o i diversi sé
digitali. Mentre sullo schermo che fa da sfondo è il sé umano
che diventa virtuale, ottenuto da elaborazioni che sfruttano
l'intelligenza artificiale. Un sé umano che scappa, bussa,
disturba, e che solo in un caso supera la "barriera" che separa
i due mondi, per poi venirne nuovamente risucchiato. La
coreografia - creata in collaborazione con l'artista
multimediale giapponese Daito Manabe - è un incessante moto
ondoso. Dà il meglio di sé nelle parti corali, coi danzatori che
ricreano quell'onda che dà il titolo all'opera con sequenze di
grande impatto sul pubblico. Al gruppo si alternano solisti e
coppie in un'eterna lotta di attrazione-repulsione tra corpi.
Cheng Tsung-lung dirige la compagnia dal 2020, succeduto al
fondatore Lin Hwai-min. Da venditore ambulante di pantofole,
oggi è un acclamato coreografo di fama mondiale. La compagnia,
ha spiegato nella conversazione post spettacolo, prende il nome
"Cloud Gate" da un'antichissima "danza del drago", una
tradizione che ha cinquemila anni e "di cui probabilmente oggi
abbiamo perso ogni traccia", dice Cheng Tsung-lung. Wayne
McGregor, direttore Danza della Biennale, inseguiva da tempo
questa formazione ma poi col Covid di mezzo gli inviti dall'Asia
hanno avuto qualche difficoltà. Proprio la pandemia è stata di
ispirazione per "Waves". "L'idea nasce nel periodo Covid, quando
ogni colpo di tosse o starnuto aveva potenzialmente un impatto,
a cascata, sul prossimo. E nello stesso periodo ognuno di noi ha
dedicato più tempo alla vita digitale che a quella reale,
creando tanti avatar quanti erano i social o le piattaforme
utilizzate". Avatar che spesso hanno preso il sopravvento, ecco
perché paradossalmente è l'io reale che bussa a quello virtuale.
Un'altra matrice del lavoro è strettamente personale. "Non
riusciamo a staccarci dalla nostra identità digitale: un'altra
vita in cui esiste un'altra versione di noi o infinite versioni
di noi. C'è stato un periodo in cui ero perso nei videogame.
Erano diventati una dipendenza, una droga, non riuscivo a
venirne fuori". L'umano bloccato al di là dello schermo
"rappresenta me stesso quando ero intrappolato nel mondo
digitale", confida Cheng.
"Waves" alla Biennale replica stasera alle 21 al teatro
Malibran.
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