(di Alessandra Magliaro) Guardare negli occhi un rifugiato oggi è un gesto politico, un modo per rimetterlo al mondo, dirgli ci sei, se non esisti per la società esisti per me. Lorena è una signora molto distinta, la messa in piega fatta, il filo di perle al collo, è una psicoterapeuta in pensione a Pordenone. Potrebbe godersi la vita benestante, "ma come posso far finta di niente, faccio la mia vita normale?". E' una delle centinaia di persone che in Italia hanno deciso di non girarsi dall'altra parte, di non far finta che la nostra società sia la stessa, è una dei tantissimi volontari che cercano di dare solidarietà, spesso in un clima istituzionale ostile, agli oltre 10 mila migranti in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, che vivono senza casa, con gravi difficoltà nell'accesso al cibo, all'acqua, alle cure mediche, esclusi dai centri di accoglienza finanziati dallo Stato. Lorena è una delle quattro donne che raccontano la propria esperienza nel documentario di Daniele Gaglianone 'Dove bisogna stare', con la consulenza artistica di Andrea Segre. Viene distribuito dal 17 gennaio in selezionate uscite-evento con un calendario di tappe in tutta Italia, in cui sono previsti la presenza degli autori ed eventuali discussioni e dibattiti post-proiezione, grazie anche alla partnership con Medici Senza Frontiere. Le tappe del tour di proiezioni saranno pubblicate di volta in volta sul sito della casa di produzione e distribuzione Zalab (www.zalab.org) e sulla pagina Facebook (www.facebook.com/zalab), un collettivo di cinque filmakers.
"Mentre la classe politica insegue emergenze e visibilità, c'è un'Italia che agisce quotidianamente per mettere al centro dignità e giustizia. È un'Italia plurale e spesso femminile; la raccontiamo in Dove bisogna stare", dice il regista. Colpisce che queste donne che si imbattono nel rifugiato siano spesso di confine, quei limiti geografici, Bardonecchia piuttosto che Pordenone, diventati negli ultimi anni passaggi obbligati di fughe e rotte della speranza. C'è Georgia, 26 anni, prima barista poi segretaria che letteralmente si imbatte in un accampamento improvvisato con un centinaio di migranti alla stazione della sua città, Como. Pensa di fermarsi a dare una mano ed è ancora lì. Storie, percorsi personali assolutamente diversi tra loro, riconducibili al tema della dignità e della giustizia, a quel 'restare umani' che oggi è l'unico muro contro i muri che continuano ad alzarsi. Elena, che lavora a Bussoleno e vive ad Oulx, fra i monti dell'alta Val di Susa e fa parte del movimento No Tav, ha aperto la sua casa di frontiera tra i monti. "Mi sono molto arricchita con questa esperienza - dice guardandola ora, vuota, sgomberata - ho imparato il francese che non fa mai male, ho imparato a fare le medicazioni aiutando questi ragazzi con i piedi distrutti. Se mi chiedi: lo rifaresti?", dice Elena guardando in macchina. "La risposta è sì". La stessa che la giovanissima Jessica, studentessa di Cosenza che frequenta Rialzo, una casa occupata che ospita rifugiati, è pronta a pronunciare di nuovo. "Tutta questa 'estraneità che ci è piombata addosso' dice Lorena con suo marito, non fa che ricordarci le nostre paure ma anche la nostra responsabilità storica".
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