Alessio Jacona*
L’intelligenza artificiale e, più in generale, l’innovazione delle tecnologie e dei processi stanno cambiando ogni aspetto della nostra vita, compreso il mondo del lavoro. Nel bene e nel male, è un fenomeno inarrestabile che sarebbe inutile e controproducente ostacolare, ma che può e deve essere governato con la collaborazione di tutti gli stakeholder della società civile, perché «l’innovazione è un fenomeno collettivo e soprattutto condiviso», che richiede una visione comune e che, quando si parla mestieri, professioni e occupazione, esige un continuo aggiornamento delle competenze.
Ne parliamo con Gloria Gazzano, presidente della sezione territoriale Lombardia di AICA (Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico) e ideatrice di D-Avengers, una community (parte del network dell’Osservatorio IA) che nasce in collaborazione con SDA Bocconi e la cui missione è creare uno spazio per condividere conoscenze, practice e competenze che accelerino la trasformazione digitale. A lei abbiamo chiesto innanzitutto cosa ritiene sia necessario fare per "assorbire" il cambiamento che l’IA sta determinando e determinerà nel mondo del lavoro, per gestirne l'impatto e le conseguenze sociali:
«Tra qualche anno la trasformazione digitale avrà creato nuovi posti di lavoro e modificato, se non eliminato, quelli meno qualificati - risponde - esperti affermano che milioni di posti andranno persi ma si tratterà di impieghi a bassa specializzazione, mentre le nuove professioni riguarderanno ruoli più specialistici, e nuovi profili, che oggi non siamo ancora in grado di identificare, nasceranno. Per questo è fondamentale coltivare e aggiornare le competenze digitali, intese come abilità tecnologiche di base e specialistiche, che permeano tutti i settori e le funzioni aziendali, attraverso una continua formazione, senza dimenticare l’importanza delle human skill».
Quindi il segreto per restare competitivi sul mercato del lavoro è continuare ad aggiornarsi?
«La trasformazione digitale ha anche un impatto sull’economia, la società e la qualità della vita degli individui, recando miglioramenti in termini di accesso alle informazioni e ai servizi, ma talvolta diventando fonte di disuguaglianza sociale a causa del divario digitale tra coloro che possono accedere alla tecnologia e quelli che ne sono privi. L’attualità più recente ci ha, infatti, mostrato come durante i mesi di lockdown, molti studenti italiani non abbiano potuto seguire le lezioni a distanza poiché non disponevano di accesso alla rete o erano sprovvisti degli opportuni device, in un sistema scolastico che ha manifestato qualche difficoltà a riprogettare e ad allineare i percorsi di e-learning alle esigenze date dall’emergenza sanitaria. L’alfabetizzazione digitale è dunque una condizione necessaria per ottimizzare l’utilizzo delle risorse tecnologiche a disposizione; in questo senso AICA da 60 anni contribuisce con i propri programmi a diffondere la cultura digitale in Italia consentendo l’accesso alle tecnologie e alle competenze digitali da parte di chiunque, affinché nessuno – individuo o azienda – debba rimanere escluso».
Deve essere un cambiamento che viene dall'alto, oppure qualcosa di corale e condiviso?
«L’innovazione è un fenomeno collettivo e soprattutto condiviso, che prevede un allineamento tra tutti gli attori di un Paese: istituzioni, aziende e cittadini. È un cambiamento che si genera dall’alto ma, affinché diventi reale è necessario che ai livelli sottostanti vi sia la “cultura” necessaria per essere avvertito, accolto e quindi seguito. Più che di strumenti o fenomeni isolati, l’innovazione è questione di connessioni. Nell’innesco della trasformazione digitale, sia a livello di sistema Paese sia di azienda, è necessaria la cosiddetta “vision”, il saper comprendere meglio e prima di altri gli scenari futuri da percorrere o addirittura da tracciare, ispirando e motivando le persone, allontanandole dalle comode abitudini in cui risiedono, ma soprattutto stimolandole affinché compiano le azioni necessarie al cambiamento. Senza un approccio olistico il rischio è che qualcuno rimanga indietro e che non si verifichino i presupposti per una vera condivisione dell’innovazione. È anche il pericolo prodotto dell’unicità del momento storico che stiamo vivendo, in cui lo shortage di risorse, di effort e di denaro è davvero straordinario».
Qualcuno resterà indietro?
«È inevitabile ed è già così. È una questione di visione ma soprattutto di competenze, tema particolarmente sentito nel nostro Paese. Come indica anche l’Osservatorio per le Competenze Digitali realizzato con la collaborazione di AICA, per accelerare sul digitale occorre accelerare su chi la le competenze per abilitarlo: le professioni STEM e le soft skill sono tra i fattori determinanti per ridurre il gap domanda-offerta di competenze digitali. In questo senso l’Italia si posiziona indietro rispetto a molti Paesi europei, sia per quanto riguarda la formazione delle competenze utili al mondo del lavoro, sia nel creare una cultura digitale condivisa. Occorre avviare una maggiore sensibilizzazione nei confronti dei giovani, ancora poco interessati alle professioni ICT, orientandoli verso lauree specialistiche che garantiranno loro un’occupazione certa. Finché non si riuscirà a mettere in atto questo processo ci saranno Paesi, aziende e individui che resteranno inevitabilmente indietro».
Quali i settori maggiormente interessati?
«L’AI è stata fondamentale nel guidare l’innovazione in settori come la medicina, la ricerca, l’automotive, ma sono i settori come l’hi-tech, i servizi finanziari e le telecomunicazioni che hanno nel core business il digitale, quelli dove la sua influenza continua a determinare nuovi interessanti sviluppi. Altre industry che non hanno nel proprio DNA l’innovazione, possono tuttavia trarne dei grandi vantaggi: basti pensare alle aziende manifatturiere dove l’uso dell’IA può portare a un sensibile recupero della produttività o laddove vi è la necessità di automatizzare o digitalizzare processi di backoffice. Pensiamo per esempio agli RPA (Robotic Process Automation) che consentono alle aziende più tradizionali di recuperare produttività ed efficienza in modo significativo nei processi a più basso valore aggiunto».
Esistono specificità italiane o in Europa siamo tutti "nella stessa barca"
«L’Italia avrebbe le carte in tavola per diventare la “manifatturiera del digitale” sia per via dei talenti e delle moltissime competenze di cui dispone, sia perché può offrire tariffe più contenute rispetto ad altri paesi e quindi essere concorrenziale sui mercati internazionali. La sfida del digitale è una sfida di innovazione e per questo le nostre caratteristiche ci rendono adatti a un mercato che non richiede grandi investimenti, a differenza di altri settori».
*Giornalista esperto di innovazione e curatore dell’Osservatorio Intelligenza Artificiale ANSA.it
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