Chiunque, entrando nella sala Darsena ieri sera alle 19.30 per vedere The Brutalist di Brady Corbet, film in concorso a Venezia '81, ha pensato in cuor suo di uscire prima della fine di questo film monstre per durata (215 minuti) per addentare un costosissimo panino del Lido, ma nessuno lo ha fatto. Anche quando a metà proiezione, quasi a provocare, il regista ha imposto a una platea sgomenta e affamata, una pausa di quindici lunghissimi minuti affidando allo schermo un'immagine fissa con tanto di timer. Insomma, altro che critiche a venire, nel caso di The Brutalist è stato il migliore test possibile per questo grande film che guarda già ai premi e racconta, tra poca realtà e molta fantasia, la storia dell'architetto ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody), emigrato negli Stati Uniti nel 1947. Una storia melodrammatica, esaltata dalla pellicola 70 mm e dalle musiche di Daniel Blumber, di questo architetto sopravvissuto all'Olocausto, artista tormentato, problematico, drogato e forse anche abusato che si trasferisce in America, lasciando l'amata moglie malata (Felicity Jones) in Europa. Negli States inizialmente vive in povertà finché incontra un singolare mecenate tanto pieno di sé quanto poco intelligente (Guy Pearce), che gli dà un incarico importante che potrebbe finalmente riscattarlo. Ma è solo l'inizio di una incredibile Odissea piena di alti e bassi. Il riferimento dichiarato è 'La fonte meravigliosa', romanzo e poi film con Gary Cooper, con la storia di King architetto rivoluzionario contro il conservatorismo dell'establishment". Nel cast anche: Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Emma Laird, Isaach De Bankolé e Alessandro Nivola. "È in fondo un dramma del Ventesimo secolo - dice al Lido Corbet, attore, sceneggiatore e regista statunitense - ci sono stati tanti architetti, ad esempio del Bauhaus, che non hanno potuto esprimersi e in questo film ho immaginato la storia virtuale di uno di loro. È un film in fondo dedicato agli artisti che non hanno mai realizzato la loro arte". E ancora Corbet: "È stato un film difficile da fare a cui ho lavorato ben sette anni e - dice rivolto ai giornalisti - ringrazio tutti voi per la pazienza di aver guardato il mio film di tre ore e mezza. Per quanto riguarda poi la lunghezza di un'opera, personalmente credo che non ti compri un libro di settecento pagine se non lo merita. Il prossimo film potrei farlo di 45 minuti". "Il mio personaggio di László Tóth era così ben scritto che mi sono trovato subito bene ad interpretarlo - dice un Adrien Brody in stato di grazia -. Ho pensato poi a mia madre che ha avuto una vita simile: è stata una rifugiata e poi ha emigrato negli Stati Uniti inseguendo il sogno di essere un'artista". Quali sono i suoi registi di riferimento? "Quelli con cui ho lavorato come Lars Von Trier ed Aneke, per fare solo due nomi. Da loro ho imparato tanto e soprattutto ho capito quanto è difficile fare un film". Frase cult del film la risposta che dà László a chi gli chiede perché abbia scelto di fare l'architetto: "Risponderei così, quanto è meno difficile fare un cubo piuttosto che spiegare cosa sia? Qui tutta la differenza".
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