(di Paolo Petroni)
La natura dà spettacolo e, spesso, è
quando più è terribile e pericolosa che acquista un fascino
particolare. Così si è arrivati a fotografare dal molo di
Stromboli la lingua di fuoco che si sprigiona a sbuffi
dall'Etna, avendo alle spalle la lava che cola a mare nella
sciara di fuoco e in alto altre fiamme e fumo che escono dalla
terra illuminando la notte. Allora, sperando che tutto si
risolva in queste affascinanti, anche perché inquietanti
osservazioni, ecco che vale la pena cercare di capire cosa ci
voglia dire la terra del nostro paese con questi sommovimenti,
brontolii e fiammeggiare sotterranei.
Ci può far da guida in questa inquieta e caldissima estate un
camminatore e esploratore curioso del Bel Paese, scrittore
arguto e di fascino come Paolo Rumiz, autore di 'Una voce dal
profondo' (Feltrinelli, pp. 286 - 18,00 euro) che ci porta fare
scoperte tra cultura e superstizione, tra miti e scienza, dalla
Sicilia alla sua Venezia Giulia. A Stromboli e in tutte le
Eolie, quel brontolio e vibrare sotterraneo, quel "suono sordo,
un rullio sommesso che cresceva e ci faceva sentire a contatto
diretto con la Terra, che ci mandava un segnale", lo chiamano da
sempre 'u trenu', che sarebbe del tutto incongruo avesse a che
fare con evocazioni di convogli ferroviari. La verità è che
c'entra il vento e che 'trenos' è parola greca che vuol dire
'lamento'. E i suoni di quelle isole si ricollegano alla fine
con quelli che sempre il vento crea nei vuoti della terra, negli
intricati antri cavernosi del Carso.
"Diceva Strabone che l'intera Sicilia era vuota sottoterra e
nel profondo nascondeva fiumi di fuoco. Un fuoco che per
Empedocle altro non era che gli inferi" e probabilmente è da qui
che viene l'idea di un Inferno come un luogo tutto fiamme. E
l'Etna nei secoli ha sputato su Catania montagne di lava a
cominciare dal primo ricordo, quello del 122 a.C. quando il
vulcano esplose letteralmente. "Eppure Catania conviveva, e
convive tuttora, col vulcano con la stessa apparente
disinvoltura con cui San Francisco convive con la faglia detta
di Sant'Andrea".
Indagando un paese dai sotterranei inquieti e tutto in
movimento, che, come dice Rumiz, parla di noi e della nostra
storia, è proprio questo abitare sulle pendici di un vulcano che
lascia più stupefatti e lo scrittore ironizza: "Un pericolo
l'Etna? Ma quando mai. È un dio benigno, rispetto alla fornace
d'asfalto, la bestialità del traffico, il manicomio dei
motorini, gli sguardi in cerca di rissa di molti,
l'atteggiamento minatorio persino di certi camerieri nei
ristoranti". E la cosa, si sa, non è diversa, anzi è in forma
molto più ampia, sulle pendici del Vesuvio, da cui però Rumiz è
affascinato per la visione magmatica dei suoi abitanti, di una
città in cui tutto comunica con tutto, l'alto col basso, la
religione con la superstizione in un esistere che Benjamin aveva
definito 'porosità'. La verità è che da lì ti affacci sul più
bel golfo del mondo e il terreno nutrito dal sottosuolo è
rigogliosissimo e offre uno straordinario materiale da
costruzione e poi c'è quella fatalità per cui alla fine tanto
"di qualcosa si deve pure morire".
Il libro naturalmente è un susseguirsi anche di interviste e
incontri, per far capire come, in questo caso, gli allarmi degli
anni Settanta sui Campi Flegrei dettero il via a uno sgombero
che lasciò poi campo libero a una terribile speculazione
edilizia e, in seguito, a un aumento della popolazione negli
stessi posti dove oggi si parla di piani di evacuazione. Non
diversamente accade con i terremoti e le ricostruzioni, non
sempre secondo le necessarie regole antisismiche, così che se
poi si muore anche per scosse non elevatissime è perché le case
sono state costruite male e, non a caso, si muore di più nei
paesi con più corruzione.
Comunque, come spiega Rumiz, "la mia non è un'inchiesta, è un
tentativo di ricavare un'antropologia dal sottosuolo", capire
gli italiani anche da questo loro rapporto, guardando cosa
accade sotto i loro piedi, dove il sacro usa gli elementi
naturali per manifestarsi, per mettersi in scena. Napoli e i
napoletani sono sono allora per lui, che scrive bellissime
colorite pagine, il punto di riferimento principale. "C'era poco
da fare. A Napoli bisognava entrarci per immersione. Calarsi nei
pozzi. Capirla non aveva senso. Bisognava saltare a pie' pari
quella pretesa" razionale e, con i suoi riti e vite, col suo
rapporto con la morte, coi suoi intellettuali, scienziati e
artisti, si rivela la cartina di tornasole che rende visibile
quell'identità geologica nazionale. Il resto riguarda il mondo
della superficie, della burocrazia e della politica, e allora
sarebbe tutto un altro discorso.
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