Quello di Glauco Mauri, nato nel 1930 e scomparso nella tarda serata di ieri alle soglie dei 94 anni che avrebbe compiuto il 1 ottobre, è stato un amore per il teatro incondizionato e totale: "Amo l'arte per la vita e non mi interessa molto l'arte per l'arte, la cosa bella è stata che il teatro e la vita si sono incontrati, sono diventati una cosa sola, io non ho portato il teatro nella mia vita, ho portato la mia vita nel teatro", vivendolo quindi come una assoluta normalità, sin da quando lo scoprì salendo in palcoscenico con la filodrammatica della sua parrocchia a Pesaro, a 15 anni protagonista de La notte del vagabondo.
Scoprì, raccontava, di sentirsi subito diverso, "perdendo in scena ogni pudore, complesso e insicurezza", così tre anni dopo si presentò a Roma all'Accademia d'Arte Drammatica diretta da Silvio D'Amico, tra i suoi insegnanti Orazio Costa, Wanda Capodaglio, Sergio Tofano. Iniziò allora, debuttando nel 1953 nel Macbeth diretto da Costa, una carriera che è stata "un intreccio di occasioni e incontri". Così fu ne La dodicesima Notte di Shakespeare con regia di Renato Castellani, e Smerdjakov, ruolo amatissimo e suo successo, ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij con Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio ed Enrico Maria Salerno, diretto da Andrè Barsaq. Quindi le stagioni dal 1961 al 1961 con la gloriosa Compagnia dei Quattro, assieme a Valeria Moriconi con Franco Enriquez, Emanuele Luzzati e poi Mario Scaccia.
Da quando uscì dall'Accademia, ha recitato per 70 anni senza perdere una stagione, come per necessità, o meglio con naturalezza del suo vivere, se aveva programmato di aprire la stagione del Vascello a Roma giovedì scorso col De profundis di Oscar Wilde, annullato per l'improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. Del resto Mauri non era più lo stesso da quando, proprio un anno fa, era scomparso a 78 anni Roberto Sturno, suo compagno di viaggio, di lavoro, di vita nell'arte per oltre 40 anni, da quando era nata la compagnia che portava il loro nome nel 1981 con Il signor Puntila e il suo servo Matti di Brecht: "Siamo stati maestro e giovane, fratello e fratello, padre e figlio e, all'ultimo io figlio e lui padre, sempre sulla base di una grande stima e intesa non priva di confronti e discussioni", che portavano a fruttuose conclusioni, a spettacoli di grande livello come, per ricordarne qualcuno: Edipo Re e Edipo a Colono di Sofocle, Re Lear e La tempesta di Shakespeare, Faust di Goethe, Delitto e castigo e L'idiota di Dostoevskij, Enrico IV e Tutto per bene di Pirandello, Il Bugiardo di Goldoni, Don Giovanni di Molière, Il rinoceronte di Ionesco, Philottete di Muller, Una vita nel Teatro di Mamet e poi l'amatissimo Beckett, da Respiro a Atto senza parole e L'ultimo nastro di Krapp, muovendosi sull'orlo del baratro del nulla rivelando una totale adesione interiore alla fatica, al dolore, allo sberleffo del sopravvivere.
Solo sul palco ritrovava se stesso. Negli ultimi anni faticava a entrare in scena, era accompagnato, stava su una sedia, poi, col suo piglio e vitalità espressiva da grande attore, velocemente, nel procedere dello spettacolo, sembrava riscaldarsi e dare il meglio di sé ad altissimo livello, giocando con brevi pause e modulando toni e volume, costruendo una sfumatura di espressioni vocali e emotive che andavano dalla depressione all'euforia, dalla desolazione alla rabbia, al divertimento, trasformando un momento di cupezza in una risata che gli illuminava il volto e gli occhi e catturava il pubblico. La sua voce inconfondibile e espressivamente potente era familiare ai tempi del Teatro alla Radio, poi passò anche alla tv e fu presente in alcuni celebri romanzi sceneggiati, da I demoni di Dostoevskij a I Buddenbrook di Thomas Mann. Così ha lavorato nel cinema e appare in film come La Cina è vicina di Marco Bellocchio (1967), La costanza della ragione di Festa Campanile (1964), L'ospite di Liliana Cavani (1971), Profondo rosso di Dario Argento (1975), Ecce Bombo di Nanni Moretti (1978).
Il nostro Chaplin lo definiva Strehler, cogliendo in quell'uomo grande dai folti capelli boccoluti, bianchi all'ultimo, lo spirito drammatico, la fine ironia, la forza del sentimento, l'intensità dello sguardo capace di rivelarne un tratto sornione. Adesso, orami provato, aveva trovato una sua dimensione più intima e consona dichiarando di non potere "più interpretare personaggi impegnativi come Re Lear" e quindi aver scelto, come dichiarato al Corriere della Sera nell'ultima intervista di pochi giorni fa, di recitare "i sentimenti espressi da Wilde nella sua lettera, che mi fa sentire più vicino agli spettatori, esprimendo pensieri che sono anche molto miei", quelli del De profundis, parabola universale sulla sofferenza, sull'arte e l'amore, recitata per solo una sera nella sua natia Pesaro il 20 settembre e che oggi appare un po' come un testamento.
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