ROBERTO VECCHIONI, ''LEZIONI DI VOLO E ATTERRAGGIO'' (EINAUDI, pp. 204 - 17,00 euro). Questo nuovo libro di Roberto Vecchioni, diverso da tutti i suoi precedenti, narrativo per certi versi ma che sarebbe difficile definire romanzo o memoir, è il suo più spiazzante, affascinante e coinvolgente e ci racconta il Vecchioni professore di latino e greco, il suo modo di far lezione aldilà dei programmi relativi al suo insegnamento. Un libro di filosofia di strada che insegue pensieri, li elabora e sembra continuamente divagare, partire per la tangente, poi fare improvvise svolte magari ad U, e procedere mostrando che invece poi torna sempre al centro, al discorso sostanziale, sul valore e il senso delle parole.
Noi siamo le parole che conosciamo, la lingua che riusciamo a usare, e più questa è ricca, più la sappiamo articolare, più saranno ricchi e articolati i nostri pensieri e il nostro essere, più saremo padroni coscienti di noi stessi, più potremo essere liberi e creativi, più potremo capire la poesia e l'amore per e della vita. E' questo, direi, che Vecchioni vuol far capire ai suoi ragazzi e su questo che continuamente torna il libro con la sua ricchezza di citazioni, di riflessioni, di interrogativi proposti attraverso un insegnamento socratico, dialogico, aperto, passando dalla cultura alta a quella popolare, da Dante al calcio, da Platone a De André, da Borges a Bill Gates, dai modi di dire a Alda Merini o i Vangeli, si scopre quanto abbiano in comune i miti e le fiabe.
E loro, scrive Vecchioni che apre il libro in terza persona, con un capitolo in cui a parlare è un suo studente che dice sempre noi, si dicono ''forti, fortissimi. Abbiamo imparato a guardare fuori, oltre, immaginando dove ha casa la speranza, dove non lo vedi, ma eccome se c'è, l'amore. Abbiamo conversato col dolore, tenuto in mano il capo di un filo sapendo che dall'altro c'era qualcuno. E scomposto le apparenze, per mischiarle e riunirle in un nuovo quadro che non ci illuda ma ci esalti, ci entusiasmi, ci faccia sentire vivi''. E non c'è di più che un insegnante, per di più con ''la mania di scrivere canzoni'', possa sperare di ottenere.
Ogni capitolo ricostruisce uno di quegli ''attimi di follia'' come li chiama, quelle lezioni tenute all'aperto negli anni '80, riuniti in un angolo appartato del parco Sempione a Milano, momenti in cui, partendo magari da una parola, spazia con i suoi vivaci alunni su tutto il sapere, si vola alto, apparentemente senza meta, e invece poi sempre si tirano dei fili, si atterra.
E per leggere queste pagine bisogna sapersi lasciare andare, entrare in esse proprio senza pregiudizi come fanno l'autore e i suoi ragazzi, la cui sfida è ''aggirare l'ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l'alternativo''.
Se le parole, con al loro storia, le loro radici, la loro molteplicità d'uso e senso sono i mattoni per costruirsi persone, e con esse che si costruisce e prende vita la poesia, quella di Alda (Merini), amica di Vecchioni che la ricorda in un bel ritratto arricchito da un inedito in suo possesso, e quella di De André, che i ragazzi vogliono portare come autore all'esame di maturità e lui li guiderà partendo dall'album ''Spoon River'' alla scoperta di quanto il cantautore debba ai trovatori provenzali e ripercorrendo la storia della letteratura sepolcrale. Un percorso al cui centro sono appunto le parole che rivelano e sostanziano i sentimenti. E allora, al centro, arriva la parola amore, sentimento in cui, anche per De André, è sempre contemplata, connaturata anche la fine, e che solo la poesia, coi suoi ritmi, la sua musicalità, esprime in tutta la sua potenzialità: ''La poesia, ragazzi, non è una formula chimica, non sintetizza, non chiude, allarga, evade, sfugge, disintegra l'attimo e lo sparpaglia per l'universo: una parola, ogni parola, è un codice di infiniti mondi, fuori del tempo, i tempi tutti li contempla''.
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