BOHUMIL HRABAL, ''IO E I MIEI GATTI'' (GUANDA, pp. 168 - 16,00 euro - Traduzione di Giuseppe Dierna) - Le esagerazioni e umanizzazioni degli animalisti, gli spot dei venditori di cibi per animali e soprattutto i social in cui sono uno dei soggetti melensi più ricorrenti hanno reso la figura del gatto abusata sino all'insopportabile, per questo un libro sui gatti di un autore umanissimo, ironico e caustico come Bohumil Hrabal, quello di ''Ho servito il re d'Inghilterra'' e ''Vuol vedere Praga d'oro?'', non può che conquistarci e riportarci alla realtà del rapporto tra uomo e animale, con tutte le sue contraddizioni.
Il racconto inizia descrivendo una affettuosa convivenza con dei gattini, con la preoccupazione quando si è lontani che possa accader loro qualcosa d'inverno sotto la neve, con baci e carezze e condivisione del letto, poi pian piano tutto questo si trasforma nel moltiplicarsi degli animali sino a una situazione drammatica che viene affrontata, anche se con gran sensi di colpa.
Del resto ad aprire la storia c'è una domanda: ''Che cosa faremo con tutti questi gatti?'', che la moglie rivolge all'autore, preoccupata ma assieme sedotta da questi che entrano la mattina, leccano il loro latte nei piattini e poi si infilano coi padroni sotto al piumone. Insomma, un amore accompagnato da un'inquietudine per l'idea di un'invasione, anche se lo scrittore, quando a Praga è allo stremo che non riesce più a scrivere, corre a raggiungere le sue bestiole, sempre con l'ansia di non ritrovarle tutte, a cominciare dall'amata Svarcava (Carboncina) che ''aveva il carattere di Chaplin e cercava di tirami su il morale''.
All'arrivo della primavera però quella domanda si ripropone con maggior evidenza, man mano che le gattine restano incinte e la prole si moltiplica: ''e io inorridivo, mi prendeva il terrore pensando a cosa avrei fatto con tutti quei gatti...
sarei stato costretto ad affogarli, certo non tutti, a ognuna ne avrei lasciati un paio, ma sarei stato costretto a fare quel lavoro di carnefice... io che i gatti li amavo'', perché una volta che li avevano tenuti tutti, poi il risultato era stato la disperazione.
Così il racconto quotidiano di questo rapporto amoroso finisce per il lettore per tingersi di noir nel convivere con lo spettro di un finale tragico. Così si incontrano storie e pagine che coinvolgono, come quelle sul bellissimo e fiero gattino Renda, ceduto a estranei che lo riportano dopo tre mesi distrutto ''come fosse uscito dalle fogne'', quello sullo struggimento per Svarcava che allatta i suoi gattini con lui ''intenerito da quegli occhi e quel nettare invisibile che sprizzava amore solo per me''. Dopo però si racconta come sin dalla mattina lui e la moglie fossero ''terrorizzati all'idea che, una volta aperta la porta, il corridoietto e la cucina sarebbero stati inondati da quella marea di gatti'', che rendevano il loro week-end ''tutto tranne che una vacanza, anzi, l'esatto contrario''. Così poi le previsioni più temute si avvereranno mentre protagonista del racconto è diventata la gattina Auticko, che dà anche il titolo originale all'opera.
Un'intervista a Hrabal dell'amico e traduttore italiano Giuseppe Dierna, che firma anche una postfazione ricca di intuizioni, rivela che lo scrittore dice di scrivere sempre delle cose che gli sono capitate o son capitate a altri, ma non senza ''il gusto del gioco che fa parte dell'essere umano e non impedisce che io non ci rovesci poi dentro il lievito di una fantasia che ne precisi meglio i contorni, così come avviene col succo d'uva che diventa vino''.
Dierna, appassionato frequentatore e alto divulgatore della letteratura ceca da noi, parla di ''poemetto in prosa dove l'avvitamento del protagonista nella spirale dell'incubo in cui precipita per via dei suoi amati gatti è reso dal ritorno di frasi eguali, come in un canone a più voci, e la narrazione procede per echi interni di parole, mentre sequenze tra loro lontane si rimandano l'un l'altra, come nel gioco di specchi di una mente in delirio''. Perché Hrabal esegue il suo compito, ma è straziato dai sensi di colpa, dal rimorso, con i fantasmi dei gatti che tornano a visitarlo. Insomma il libro appare alla fine un apologo su colpe e tradimenti, con storie come quella del cigno che respinge l'autore che cerca di salvarlo dalla morsa del ghiaccio, al contrario dei gatti che lui ha ucciso e avrebbero tanto voluto restar vivi, mentre direi che è da mettere al centro di tutto un grave incidente automobilistico che sembra mettere a confronto la vita e la morte del narratore con quella dei suoi gatti.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA