Come in un gioco dell'oca senza fine, la comunità internazionale - o quel che rimane di essa - torna a fare i conti con i propri errori e con le valutazioni strategiche che, ancora una volta, si stanno rivelando tragicamente miopi, in quell'angolo di mondo tra il Mediterraneo e l'Afghanistan.
Proprio come a Kabul e dintorni, quando i mujaheddin da alleati fidati divennero la colonna portante della rivolta talebana. Come nell'Iraq post-Saddam abbandonato alla vendetta degli sciiti. Come nelle primavere arabe trasformatesi in malinconici inverni senza guida.
Così adesso nella lotta all'Isis la strategia appare tardiva e timida. Poco definita e, di nuovo, troppo incentrata sulle capacità militari degli Stati Uniti, l'unica super potenza rimasta a livello globale, anche se con obiettivi e orizzonti molto ridimensionati.
Barack Obama, il presidente Usa soprannominato dai falchi della destra il "guerriero riluttante" e accusato di non avere una strategia, appare paradossalmente l'unico leader ad avere qualche idea sul sentiero da percorrere.
E' vero che un anno fa, in Siria, stava per bombardare dall'altro lato del campo, cioè sugli uomini di Bashar Assad, facendo quindi un favore a quelli che adesso, invece, sta bombardando davvero. Ed è anche vero che fu proprio Obama a parlare di un Iraq finalmente liberato e e pronto a camminare con le proprie gambe.
Si tratta di evidenti errori di valutazione politica e militare. Ma è anche vero che l'inquilino della Casa Bianca è forse il solo tra i leader mondiali ad aver avuto il coraggio di fare marcia indietro ed impostare un qualche tipo di reazione di fronte alla creazione di un mattatoio a cielo aperto tra l'Iraq e la Siria da parte dell'Isis.
Certo, c'è da chiedersi quale tipo di strategia concordata sarà in grado di mettere in piedi la strana coalizione nata dal vertice di Parigi. Forse basterebbe che i membri della nuova alleanza contro il califfato di Al Baghdadi provassero con sincerità e trasparenza a rispondere a qualche domanda per trovare il bandolo della matassa.
Dove hanno trovato le armi moderne e sofisticate che usano con grande preparazione i circa 30mila guerriglieri dell'Isis? Chi li addestra e li guida? Chi li finanzia? Come possono aver circa 2 miliardi di dollari cash? Chi compra il petrolio che pompano dai pozzi conquistati nel nord dell'Iraq? E' chiaro che la proxy war, la guerra per procura combattuta in Siria tra sunniti e sciiti, ma anche all'interno delle due stesse grandi anime dell'islam, è sfuggita di mano a qualcuno.
Per esempio a chi ha finanziato fino a ieri i vari gruppi contrapposti sul terreno di battaglia.
Gli interessi contrapposti, il risiko in continuo movimento e il cambiamento delle alleanze nel grande gioco mediorientale e la lentezza insostenibile dei tempi di reazione del mondo hanno permesso che la guerra in Siria mutasse pelle, che l'opposizione laica ad Assad scomparisse e fosse quasi del tutto assorbita dagli uomini di Al Nusra, l'emanazione di Al Qaida in questa regione, che i tagliagole dell'Isis avessero il sopravvento e che Assad fosse guardato con occhi diversi da Usa ed Europa.
Così ora non c'è soltanto da combattere la guerra contro l'Isis considerando anche l'escalation possibile dopo le prime dichiarazioni dei militari Usa sull' eventualità di mettere "boots on the ground".
C'è da combattere anche contro l'atteggiamento distaccato e lontano di Usa e Europa, fino a poche settimane fa ancora poco convinte nella loro azione e non completamente consapevoli del pericolo reale e concreto del consolidamento del califfato.
Al di là di alcune decisioni generose di alcuni Paesi europei - tra i quali anche l'Italia - manca una politica comune dell'Europa e un coordinamento con gli Usa e i Paesi arabi moderati. La riunione di Parigi potrebbe essere un inizio se ci sarà continuità politica nella cooperazione e una nuova convinzione concreta nella lotta da portare avanti.
L'undici settembre non arrivò per caso, anche se trovò un mondo impreparato. E il Medio Oriente non è così lontano. Come la storia recente insegna piuttosto bene.
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