La trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale, approvata dal referendum di ieri, era da anni un obiettivo di Recep Tayyip Erdogan. Scopo dichiarato: favorire la stabilità e la governabilità, superando il sistema parlamentare. L'entrata in vigore della riforma costituzionale, composta da 18 articoli, è prevista il 3 novembre 2019, con l'elezione contestuale di presidente e Parlamento. Tuttavia, alcune previsioni saranno immediatamente operative: Erdogan potrà tornare a essere formalmente iscritto al suo partito Akp, i membri del Consiglio superiore della magistratura (Hsyk) verranno ridotti e saranno definitivamente abolite le corti militari. La riforma concentra il potere esecutivo interamente nelle mani del presidente, abolendo la figura del primo ministro.
Il capo dello stato, eletto direttamente, nomina e revoca non solo i ministri e i suoi vice, ma anche alti funzionari dello Stato, molti dei giudici più importanti, diplomatici e rettori universitari. Può inoltre decretare lo stato d'emergenza, emanare decreti e sciogliere il Parlamento (che a sua volta può sciogliersi con un voto dei 2/3). Il presidente può essere eletto per due mandati da 5 anni, estensibili a un terzo in caso di scioglimento anticipato della seconda legislatura: così, Erdogan potrebbe restare al potere fino al 2034. Cambia anche la composizione del Parlamento, che passa da 550 a 600 membri, con un abbassamento da 25 a 18 anni dell'età per candidarsi ed essere aletti.
La Grande assemblea di Ankara, che non vota la fiducia, viene eletta per 5 anni e si rinnova contestualmente al presidente. Per decidere l'impeachment del capo dello stato, rinviandolo al giudizio della Corte suprema, occorrerà una maggioranza dei 2/3. Si modifica inoltre il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario. La Corte costituzionale viene ridotta a 15 membri, di cui 12 nominati dal presidente e 3 dal Parlamento, mentre il Csm diventerà di 13 membri: 4 scelti dal presidente, 7 dal Parlamento, mentre gli altri saranno membri del governo.