(di Paolo Petroni)
Il caffè delle Giubbe Rosse a
Firenze, luogo celebre come centro della cultura dei primi
decenni del Novecento, dove nacquero riviste importanti e case
editrici, frequentato da un numero infinito di personaggi, dai
più anziani, Soffici, Prezzolini, Papini ai più giovani, da
Vittorini a Pratolini, ha riaperto da pochi giorni dopo anni di
chiusura e grazie al vincolo di locale storico posto nel 2019
dalla Sovrintendenza. Restaurato quindi su progetto
dell'architetto Domenico Gallucci senza snaturarlo e ridando
vita agli affreschi alle pareti, il locale, nato nel 1987 in
quella che ora è Piazza della Repubblica, era in realtà una
Birreria, come diceva l'insegna dei Fratelli Reininghaus, due
birrai tedeschi.
Soprannominato Giubbe rosse per il colore delle giacche dei
camerieri, quotidiani e riviste di giornata erano sempre sui
tavoli e furono anche queste ad attirare intellettuali e
artisti. Tra i primi a ritrovarsi nella cosiddetta terza
saletta, quelli legati alle avanguardie e naturalmente una data
significativa resta l'uscita del manifesto futurista di
Marinetti il 20 febbraio 1909 su Le figaro, dopo cui esplose la
febbre futurista con Soffici, Boccioni, Palazzeschi, Papini,
Marinetti arrivato da Londra, e altri, compresi quelli che
dettero vita nel 1913 alla rivista Lacerba, un gruppo che
arrivava dai collaboratori de La voce frequentatori del caffè.
Nel 1926 fu poi il momento della creazione da parte di
Alberto Carocci di Solaria, che aveva tra i vari fondatori
Eugenio Montale, Leone Ginzburg, Giacomo Debenedetti, Sergio
Solmi cui si affiancarono altri provenienti da La Ronda (che
aveva chiuso tre anni prima) come Riccardo Bacchelli e Antonio
Baldini, nel giro pure Carlo Emilio Gadda coi più giovani Arturo
Loria e Alessandro Bonsanti che introdusse l'amico Silvio
Guarnieri. A Solaria nel 1937 seguì Letteratura, aperta ai
dibattiti delle nuove generazioni di letterati. L'esaltazione
futurista si era andata spegnendo e il fascismo, con la sua
retorica e chiusura culturale era incombente e presto quasi
tutti loro vi avrebbero fatto i conti. Nel 1938, per opera di
Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, sempre lì, vide la luce Campo
di Marte, con l'intento di creare un rapporto tra arte e realtà
politico-sociale, e con loro erano molti altri coetanei, da
Mario Luzi, a Oreste Macrì, da Elio Vittorini a Guglielmo
Petroni.
Una bella testimonianza di cosa rappresentassero le Giubbe
Rosse la ha scritta proprio Petroni nel 1984 in alcune pagine de
l'autobiografia 'Il nome delle parole' (Sellerio - Premio
Selezione campiello). Alle Giubbe Rosse arrivò ventenne dalla
sua Lucca nei primi anni '30, dopo la pubblicazione delle prime
poesie:
--- 'Vieni a farti conoscere' mi scrisse Silvio Guarnieri. 'Non
posso ancora, ma appena avrò i soldi per il treno'. Il treno da
Lucca costava quasi 4 lire. Passarono 2 settimane e mi
arrivarono 100 lire: 'Ora vieni e stai un po' qui'. Partii per
Firenze, anzi per le Giubbe Rosse. Era in quel luogo in quel
caffè che non avevo mai visto che pensavo si sarebbero
acquietate speranze e ambizioni... ''Oh Petroni'' fu il debole
saluto dei nuovi amici che, dopo una stretta di mano, tornarono
immobili e silenziosi. Rimasi lì con loro e i silenzi erano
lunghi, inevitabilmente ammorbiditi dai gorgheggi baritonali di
Montale. Bonsanti mi rivolse qualche buon sorriso. Vittorini mi
domandò se avevo già cercato l'albergo.
Non fui sconcertato nemmeno al primo incontro; era come se
già conoscessi quel comportamento, quei silenzi; all'ora di
salutarci però, Montale e qualche altro si preoccuparono s'io
sapessi dove avrei potuto cenare. 'A casa mia' rispose per me
Vittorini. Dopo cena, i figli a letto e Delfina in cucina,
rimanemmo noi due soli a bisbigliare; più che di letteratura,
conoscevamo il reciproco lavoro da tempo, parlammo delle nostre
miserie quotidiane; Elio aveva una vita difficile, anche se
Delfina, che era la sorella di Quasimodo, aiutava la barca
lavorando in una tabaccheria. Malgrado le sue difficoltà fossero
forse maggiori delle mie, lui s'interessava solo al suo lavoro
letterario.
Presi anch'io l'abitudine a lunghi silenzi... Il primo
approccio con Gadda non tardò molto; mi si mise vicino: 'Bella
Lucca'. Fu subito attento alle mie parole, alcune cominciò ad
appuntarle su un taccuino; me le faceva ripetere ed erano quelle
parole lucchesi di cui non facevo allora risparmio. Tutti
comunque, ben presto conversavano volentieri con me; Montale,
nei nostri primi approcci, mi parlò lungamente della
psicanalisi, dell'ultima sigaretta di Zeno, e mi parve quasi
meravigliato quando potei dimostrargli che quegli argomenti non
mi erano del tutto estranei. Loria era un poco l'animatore,
sapeva concentrare su di sé l'interesse degli altri, per il suo
parlare composto d'un fiorentino particolare... Prima che mi
congedassi alla fine della mia prima visita ai fiorentini,
Montale e Gadda mi invitarono a cena all'Antico Fattore; mi
fecero parlare molto, vollero sapere tutto delle mie giornate
lucchesi, della mia pittura, del negozio di scarpe in cui
lavoravo. Non sapevano che parlandomi con naturalezza di ciò che
per me era stato per molto tempo situazione di grande disagio,
stavano felicemente distruggendo gli ultimi residui dei miei
pregiudizi. Prima che ci lasciassimo, in quel primo nostro lungo
colloquio, Gadda mi fece una domanda: 'Come ti è venuto in mente
di scrivere?'... Firenze alla fine mi aveva inquadrato nel vivo,
nella realtà di un mondo contemporaneo, che io sino allora avevo
frequentato solo con l'immaginazione, attraverso testi e
notizie, legandomi di affetti e interesse alle persone che ora
erano amiche''.
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