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Sellerio riscopre Wodehouse e Jeeves

Sellerio riscopre Wodehouse e Jeeves

Manganelli s'indignava perché divertente non era detto scrittore

ROMA, 27 luglio 2024

di Paolo Petroni

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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P.G. WODEHOUSE -"ALLA BUON'ORA JEEVES!" (SELLERIO, PP. 384, 16,00 EURO)

È perentorio Giorgio Manganelli: "Non ho dubbi: Wodehouse è uno scrittore... di rara originalità, al cui nome ha nuociuto la rigorosa specializzazione. Fa sempre ridere, come può essere una cosa seria?". E torna in mente ora che l'editore Sellerio annuncia di voler intraprendere la pubblicazione dei romanzi della serie del maggiordomo Jeeves e il suo padrone Bertie Wooster a cura e nuova traduzione di Beatrice Masini, mandando in libreria il primo, "Alla buon'ora Jeeves!" (pp. 384 - 16,00 euro).
    E Manganelli parla tanto seriamente che annota di non pensare abbiano mai discusso di lui in sede del Nobel, indignandosi perché questo "geniale e avventuroso" scrittore sia stato tenuto "sempre alla periferia della letteratura" e invitando a recensirlo Citati ma anche Asor Rosa. La sua risposta è sempre la stessa: "Wodehouse è estremamente divertente, forse la lingua inglese non ha avuto mai scrittore così meticolosamente divertente; Jerome, perfino Jerome Klapka Jerome (dei 'Tre uomini in barca, per non dir del cane'), eroe della mia infanzia, non gli resiste: ogni tanto Jerome diventa saggio, pensoso, ha perfino delle idee".
    Non si può allora che andare a rileggerlo (nelle edizioni Bietti, appartenute alla famiglia di mia madre, è stata una presenza costante nella mia adolescenza) o a scoprirlo che, in un momento come questo, di hater e fake, di crisi economica e animi esasperati con sullo sfondo la guerra, la sua suprema, elegante leggerezza e gli ingranaggi delle situazioni in cui Wooster si caccia e Jeeves lo tira fuori, più o oltre che distrarre penso possano far riflettere appunto sui rapporti umani e sul verso giusto in cui si dovrebbero prendere e risolvere le cose. "Nel secolo ventesimo - è sempre Maganelli - un secolo piuttosto sinistro, Wodehouse ha portato il tono mentale, non tanto l'estro - non è estroso - quanto l'esattezza del congegno comico dell'antica commedia" e il suo apparente irrealismo non suona mai falso, anzi è come una recitazione che fa sentire reale la finzione.
    Sono romanzi che sono stati letti anche come implicita critica sociale, con questo servitore superiore a tutti quanti, che si perdono in riti e convenzioni ridicole. Del resto l'Inghilterra aristocratica di queste storie è già morta quando lui la racconta ("Wooster, se è mai esistito, è stato ucciso attorno al 1915", scrive Orwell) ma oggi questo ha meno importanza che mai, anzi quel mondo fuori dal tempo si fa più esemplare e universale e, come è stato detto, ognuno sa di avere in sé un po' di Bertram Wooster, della sua nobiltà e sciocca degradazione assieme.
    Wooster riesce a elaborare piani, e gli piace farlo, che si risolvono sempre in disastri e da cui si salva grazie solo alla superiore intelligenza e protezza del suo fedele Jeeves. Qui affronta due problemi sentimentali (ce ne sono sempre in questi romanzi): la rottura del fidanzamento tra sua cugina Angela e l'amico Tuppy (tutti hanno ridicoli nomignoli) Glossop e il fatto che l'altro amico, il timido Gussie Fink-Nottle, non trova mai l'occasione per dichiararsi a Madeline Bassett, senza contare, per esempio, il fatto che non è facile stabilire a chi tocchi l'onore di distribuire premi di fine anno in una scuola privata. E ogni volta sono queste situazioni, il loro evolversi, precipitare e risolversi che conquistano totalmente e divertono il lettore, quasi a prescindere dal filo generale della trama.
    La Masini scrive una bella introduzione, presentandoci la figura di Wodehouse (1881 - 1975) che, arrivato in Inghilterra da Hong Kong a due anni, entrò dopo la high school in banca perché un rovescio famigliare gli impedì di andare a Oxford come il fratello maggiore. Diventato molto ricco e in fretta dal suo paese visse spesso lontano, tra Francia e America, dove era amatissimo (e dove morì), non solo per i libri (ha scritto quasi cento romanzi, uno ogni tre mesi all'inizio, poi ogni sei), ma anche per le sue canzoni e collaborazioni che andavano da Zigfiled a Gershwin e il lavoro a Hollywood, dove firmò una ventina di sceneggiature per il neonato cinema sonoro.
    Naturalmente la prefazione non tace sull'ombra che calò nel dopoguerra su Woodehouse accusato di collaborazionismo coi nazisti per certe sue trasmissioni radiofoniche prigioniero inglese a Berlino; accuse da cui fu scagionato dopo lunghe indagini e anche per il sostegno pubblico di Orwell. E a noi non resta che tornare alla "misura perfetta di un suo romanzo, che finisce in levare, come uno strappo, come un'intervista si chiudesse con una domanda" come conclude la Masini, che firma anche la bella traduzione, che Manganelli riteneva "facile per niente", sapendo che "il suo linguaggio è incantevole, perché l'inglese si presta stupendamente a quelle lievi oscillazioni di tono che sono non di rado irresistibili". 
   

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