Sullo zero Massimo Troisi non aveva dubbi: per lui Ricomincio da tre (le tre cose che gli sono riuscite nella vita) significa qualcosa di meglio di Ricomincio da zero, come gli suggerisce l’amico Lello Arena nella scena chiave del film che ha reso popolare l’attore napoletano scomparso nel 1994. Ed è più o meno l’idea implicita che abbiamo in mente quando sentiamo pronunciare lo zero con valore aggettivale accostato ad altre parole, come nel caso di paziente zero, che è stato, nella vicenda della diffusione della Covid, l’autentico rompicapo di qualche mese fa, oppure l’R0, diventato quasi argomento di conversazione naturale tra le persone preoccupate della progressione e del contenimento dell’epidemia.
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A noi sembra naturale associare l’idea di zero al vuoto, all’assenza, al nulla. Lo zero oggi si dice e compare soprattutto per questo: zero calorie, zero spese, tassi zero, zero anticipi. E ancora: zero pensieri o problemi zero, come direbbe Jovanotti. In tutti questi casi, lo zero corrisponde ad un bel ‘senza’, ma usiamo zero per l’impatto più forte che l’espressione ha, per la sua radicalità: lo zero è proprio il nulla assoluto.
Poi c’è la farina zero zero che è un paradosso ma non troppo: è la più raffinata, e questo farebbe pensare a qualcosa che in un certo senso è il contrario dello zero perché presuppone vari passaggi e si potrebbe pensare (lo si è pensato per molto tempo) che si tratti di una aggiunta di valore. Raffinare però significa togliere e da tempo ormai molti solerti nutrizionisti ci hanno spiegato che così facendo stiamo togliendo, dopo aver macinato il cereale, le sue parti migliori, in particolare la crusca e il germe di grano. Tanto che Roberto Saviano per esempio ha usato per il suo romanzo, diventato anche una fiction, il titolo Zero Zero Zero, un’espressione che nel campo dell’alimentazione in realtà non esiste, ma serve a indicare l’estrema raffinazione di una partita di coca che è alla base della storia, prendendo spunto proprio dalla farina. Quel triplo zero è raggiunto attraverso la sottrazione di tutti gli altri elementi che renderebbero quella materia ‘impura’.
Quindi lo zero in questo caso, di nuovo, rappresenta un valore, quello della purezza raggiunta attraverso la sottrazione. Non è un’idea così originale: ha attraversato la cultura del mondo da Oriente a Occidente per secoli. Dal manicheismo, la religione fondata da un profeta iraniano tre secoli prima di Cristo, passando per San Francesco e senza dimenticare la civiltà Maya che alcuni secoli prima di Cristo aveva il suo sistema numerico a base vigesimale, cioè 20, e comprendeva lo zero per indicare un ordine numerico vuoto. Fino agli esperimenti delle avanguardie letterarie e artistiche, dal grado zero della scrittura di Roland Barthes (la scrittura senza storia) al grado zero del teatro di Samuel Beckett in Quad (opera teatrale senza parole pensata per la scuola di danza di Stoccarda in cui quattro individui coperti da mantello e cappuccio camminano lungo le linee immaginarie di un quadrato: quad, appunto), e ai quadrati bianchi del suprematista Kazimir Malevic, in cui è appena distinguibile la figura stessa che si vuole rappresentare.
Eppure lo zero è tutt’altro che un nulla. E, forse non a caso, si tratta di un’idea faticosamente conquistata, un concetto relativamente giovane nella storia del mondo. Lo zero infatti è il neonato dei numeri, l’ultimo venuto al mondo. Anche l’1 per la verità ci ha messo un po’ ad apparire, almeno in Occidente, introdotto dallo stoico Crisippo nel III secolo avanti Cristo, facendo seguito al 2, visto che per i pitagorici per esempio il primo numero era il tre. Ci è voluta l’introduzione del sistema posizionale, quello che usiamo ancora oggi e in cui ogni cifra assume un valore diverso a seconda della posizione, con le centinaia, le decine e le unità, per avere bisogno dello zero che riempisse il posto, guarda un po’, vuoto (alla fine la parola che ritorna è sempre questa): come in 101, per esempio. E così lo zero conclude solo nel Medioevo il suo percorso, anche questo tra Oriente a Occidente, essendo nato tra i babilonesi che usavano un sistema sessagesimale a base 60 ma valorizzato, se così si può dire, dagli indiani che lo introdussero con il sistema decimale per far di conto. A portarlo in Europa, infine, furono gli arabi che lo appresero proprio dagli indiani. La parola indiana era sunia che, di nuovo, significa proprio vuoto (ed era indicato con un puntino non con un cerchio), diventata in arabo sifr, da cui deriva anche la parola cifra, e nel latino medievale zephirum che i mercanti veneziani trasformarono in zevero, poi zero. Il meno che si possa dire, oltre alla fatica che il concetto e la parola hanno affrontato per affermarsi anche in Occidente, è che si tratta di un termine vertiginoso (Charles Seife, che gli ha dedicato un libro, lo ha definito ‘pericoloso’) che sembra danzare su un confine, proprio come abbiamo già visto per altre parole. Da un lato c’è il nulla (Zero Dark Thirty, titolo del film di Kathryn Bigelow sulla cattura di Osama bin Laden, nel linguaggio militare indica il momento del buio più profondo), dall’altro addirittura l’infinito, con quel doppio zero che ne è il simbolo.
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