In una delle sue canzoni meno fortunate dal punto di vista commerciale, Lucio Battisti canta il ponte come lo strumento per andare al di là di questo mondo, in una dimensione diversa, dove c’è ‘una terra senza serra’, quindi dove tutto cresce in modo naturale, e dove ‘i frutti sono di tutti’. In pratica un Eden socialista, un universo utopico che Lucio Battisti e Giulio Rapetti, in arte Mogol, ecologisti ante litteram, almeno Italia, sognavano per un futuro più felice, più a misura d’uomo, più sostenibile diremmo oggi. E’ singolare notare come l’album stesso da cui è tratta la canzone intitolata Due mondi, e cioè Anima latina, sia stato oltre che uno dei più controversi del cosiddetto primo Battisti, anche un vero e proprio album-ponte di un cantautore irrequieto, desideroso di esplorare territori nuovi, insoddisfatto della continua ripetizione di una formula che pure aveva rivoluzionato la canzone leggera italiana e gli aveva portato fama e successo indelebili. Senza contare, per chi ama le coincidenze, o meglio ancora per chi crede che nulla sia una coincidenza, che in questa canzone c’è l’unico duetto, con una cantante, che Battisti abbia mai registrato in studio. Ebbene qui il ponte, una parola che abbiamo dovuto usare tanto nelle ultime settimane e non per ragioni piacevoli, richiama un principio di speranza, l’idea di un andare oltre che, almeno nelle intenzioni dell’autore della canzone, è anche un segno di vero progresso verso un nuovo mondo.
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E’ dall’inizio delle sua storia che il ponte si porta dietro questo carico simbolico così positivo: superare un ostacolo, attraversare uno spazio, unire ciò che la natura sembra aver diviso. D’altra parte l’etimologia del termine è chiara: sia il pons latino che il pontos o patos greci rimandano a passaggio, via che sono contenuti nella radice sanscrita path, andare. E molti dei modi di dire che lo riguardano fanno riferimento a questo, come tagliarsi i ponti alle spalle, per esempio, che significa in un certo senso andare avanti senza poter tornare indietro. Mentre l’acqua che scorre sotto i ponti, su cui poi torneremo, ne sottolinea il legame con una dimensione dinamica, di evoluzione e di sviluppo temporale. Perfino il gioco del Bridge, secondo una delle molte ipotesi sull’origine del termine, si chiama così per quel ‘ponte’ che si stabilisce tra la coppia di giocatori.
E si chiamava Die Bruecke, cioè il ponte, uno dei movimenti d'avanguardia che popolarono l'inizio del Novecento, fondata in Germania tra gli altri da Ernst Kirchner e Emil Nolde. Il termine lo preseroo da un passo di Così parlo Zarathustra di Friedrich Nietzsche in cui si parla di quella umanità che rappresenta un ponte tra l'uomo del passato e quello del futuro il famigerato Uebermensch, tradotto impropriamente come Superuomo invece che, più correttamente, come Oltre-uomo.
C’è stato chi ha detto che ‘costruire un ponte è una guerra contro le forze della natura’ e non era uno qualsiasi: si chiamava Joseph Strauss, ingegnere americano di origine tedesca, progettista del Golden Gate Bridge di San Francisco che, tanto per giocare un po’ con le parole che di settimana in settimana scegliamo, è proprio uno dei ponti-icona dell’immaginario mondiale. In realtà secondo alcuni i primi ponti sospesi risalgono addirittura al Neolitico, 9000 anni fa, in una fase in cui l’uomo sviluppò l’agricoltura e l’allevamento. E non a caso il ponte, proprio per questa valenza simbolica e per i momenti chiave della storia in cui ha visto il suo massimo sviluppo, come in epoca romana ad esempio, e poi in quella post-rivoluzione industriale, viene interpretato come un vero e proprio monumento al progresso. Ma non solo: non è difficile legare l’immagine di slancio verso un altrove, di legame fra due territori distanti, all’amore stesso. Ce lo ricorda un altro grande americano, lo scrittore Thornton Wilder che scrisse: ‘C’è una terra dei vivi e una terra dei morti e il ponte è l’amore, la sola sopravvivenza, il solo significato’. Wilder lo ha scritto in Il ponte di San Louis Rey, un romanzo sulle storie delle cinque persone morte nel crollo del ponte. Indro Montanelli lo giudicava uno dei veri pochi capolavori del ‘900 soprattutto per la tecnica narrativa che era poi il motivo per cui ne consigliava la lettura non solo agli aspiranti scrittori ma anche ai giornalisti. Magari Montanelli esagerava a fini pedagogici ma certo Wilder aveva colto il modo, potente e doloroso, in cui la natura stessa del ponte può unire due estremi complementari: l’amore e la morte.
Il cinema e la musica del XX secolo sono punteggiati di storie che legano questi due universi: dai romanticissimi I ponti di Madison County di Clint Eastwood e Les amants du Pont Neuf di Leos Carax al Meraviglioso di Domenico Modugno o Preghiera in gennaio di Fabrizio De Andrè o anche Don’t give up di Peter Gabriel, dove i protagonisti sono individui per i quali il ponte è forse l’ultimo legame con questa terra prima di un gesto estremo, realizzato o anche solo immaginato. A riunire tutto questo in una ballata memorabile che ci parla del ponte più e meglio di qualunque manuale di storia o di ingegneria sono stati Paul Simon e Art Garfunkel in Bridge over troubled waters dove il ponte è un amico che conforta, letteralmente sdraiato sulle acque agitate dell’animo umano.
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