Fare il male a fin di bene’, come dice Toni Servillo-Giulio Andreotti in una scena chiave del Divo di Paolo Sorrentino, è una delle più tipiche manifestazioni della cosiddetta ‘immodestia della colpevolezza’ cui non poteva sfuggire neanche il cattolico peccatore Andreotti che, in quanto tale, dovrebbe essere povero e misero, quindi modesto e col capo chino ma invece l’auto-attribuzione della colpa è sempre qualcosa di grandioso in un certo senso: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa. E dietro quel grandissima c’è forse un doppio significato: la profondità della colpa ma anche il protagonismo dell’agente colpevole.
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Ha parlato di ‘immodestia della colpevolezza’, e sempre ragionando sul virus e i suoi dintorni sociali e antropologici, il filosofo francese Alain Finkelkraut intervistato dal quotidiano La Repubblica. Finkelkraut è critico con chi crede che il virus, come già l’Aids negli anni ’80 del ‘900 o le devastazioni di incendi, uragani, terremoti siano una vendetta della natura sull’uomo avido, sfruttatore, tracotante. E usa due espressioni che hanno avuto un ruolo importante nella storia della cultura occidentale ai suoi albori e poi, in altre forme, anche dopo: nemesi, il nome della dea e ministra della giustizia e della vendetta secondo i Greci, e hybris, ovvero tracotanza, superbia, violenza. Ma dice Finkelkraut, attribuirsi tutte queste colpe, cioè ritenere di essere così importanti da aver generato tutte queste conseguenze, è appunto segno di incredibile superbia.
In effetti, prima che la colpa, intesa come causa di qualcosa che produce conseguenza, fosse legata al peccato con la narrazione seminale della mela morsa da Adamo ed Eva e quindi prima della variazione cristiana del concetto di colpa che poi finirà per essere quella dominante, l’idea di colpa nel mondo greco arcaico è sconosciuta e per un motivo molto semplice: non è l’uomo a muovere le pedine ma gli Dei. Quindi al massimo all’uomo è riservata l’accusa, se così si può dire, di hybris cioè, tanto per creare un corto circuito con altre parole di cui ci siamo occupati, mancanza di rispetto verso gli dei, gli unici cioè che possono attribuirsi la responsabilità di quello che accade, i soli che letteralmente possono qualcosa riguardo alla natura e ai destini degli uomini.
In un passaggio piuttosto oscuro, almeno a leggerlo oggi, di Anassimandro, uno dei tre presocratici di cui ci siamo già occupati a proposito della parola respiro, si parla in realtà di pena e punizione, che tutte le cose pagherebbero a tempo debito. Ma si parla appunto della natura e di tutte le cose e non si pensa certo all’uomo in quanto colpevole di un’azione, tantomeno in senso morale.
C’è però un greco, e, possiamo ben dirlo, un’icona greca, che cambia il corso di questa impostazione di pensiero: è Ulisse. Come ha spiegato bene Eva Cantarella, storica del mondo greco e romano e giurista, è con lui che si apae la strada a quel fondamentale concetto di responsabilità individuale che è premessa indispensabile per poter parlare di colpa e colpevolezza. Benché martoriato e stalkerizzato, diremmo oggi, dall’ossessiva presenza degli dei, di cui è spesso vittima, Ulisse è il primo che sceglie davvero (magari aiutato alla bisogna da qualche altro dio in competizione con i suoi pari) e per questo può assumersi una colpa o quanto meno una responsabilità. Prima di lui, e negli stesi poemi omerici, spiega Cantarella, al massimo possiamo parlare di quella che oggi chiamiamo responsabilità oggettiva: sei responsabile di qualcosa ma non l’hai fatto consapevolmente. Invece Ulisse ha qualcosa che è più della proverbiale astuzia: il cavallo di legno e il modo in cui sfugge a Polifemo rappresentano la capacità di essere fabbro del proprio destino. Vedete che in questo modo la colpa rappresenta un po’ il terzo vertice di una sorta di triangolo delle Bermuda della coscienza che ha nella responsabilità e nel debito, parole che abbiamo già affrontato, gli altri due angoli.
La parola coscienza non è citata a caso. La psicanalisi ha aperto la contemporaneità ad una revisione dell’idea cristiana di colpa, laicizzata nel concetto di complesso. Si è convinti, anche se, come ha suggerito Freud, in modo inconscio, di essere responsabili di un’azione o, ancora di più, di un’omissione e questo ci schiaccia e può opprimerci per il resto della nostra intera esistenza. Fra l’altro l’origine latina della parola, culpa, significa il furto avvenuto, l’aver preso e nascosto e questa parola c’è anche in greco ed è klopè.
Le conquiste più recenti della neurobiologia e della biochimicacorrono però in soccorso di una teoria troppo legata all’idea della nevrosi come conseguenza della soppressione di un desiderio proibito. Edoardo Boncinelli, biologo e grande divulgatore, si chiede ‘perché ci sentiamo così di frequente in colpa’? La risposta sembra essere biologicamente semplice: ogni nostro comportamento, dice Boncinelli, è il risultato di una serie di spinte a fare e di altrettante a non fare. Sono spinte a livello ormonale e nervoso. Una guerra del cervello tra regioni sottocorticali e corteccia cerebrale prefrontale. Chiunque abbia la meglio lascia l’altra metà insoddisfatta e mortificata. Inutile combattere: il senso di colpa non scomparirà perché non può. Anche quando l’unica colpa è essere giovani o essersi fatti crescere i capelli, come cantavano i Rokes (che all’epoca, guardate un po’, venivano definiti ‘complesso’) in ‘Ma che colpa abbiamo noi?’.
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Fare il male a fin di bene’, come dice Toni Servillo-Giulio Andreotti in una scena chiave del Divo di Paolo Sorrentino, è una delle più tipiche manifestazioni della cosiddetta ‘immodestia della colpevolezza’ cui non poteva sfuggire neanche il cattolico peccatore Andreotti che, in quanto tale, dovrebbe essere povero e misero, quindi modesto e col capo chino ma invece l’auto-attribuzione della colpa è sempre qualcosa di grandioso in un certo senso: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa. E dietro quel grandissima c’è forse un doppio significato: la profondità della colpa ma anche il protagonismo dell’agente colpevole. [ ]
Ha parlato di ‘immodestia della colpevolezza’, e sempre ragionando sul virus e i suoi dintorni sociali e antropologici, il filosofo francese Alain Finkelkraut intervistato dal quotidiano la Repubblica. Finkelkraut è critico con chi crede che il virus, come già l’Aids negli anni ’80 del ‘900 o le devastazioni di incendi, uragani, terremoti siano una vendetta della natura sull’uomo avido, sfruttatore, tracotante. E usa due espressioni che hanno avuto un ruolo importante nella storia della cultura occidentale ai suoi albori e poi, in altre forme, anche dopo: nemesi, il nome della dea e ministra della giustizia e della vendetta secondo i Greci, e hybris, ovvero tracotanza, superbia, violenza. Ma dice Finkelkraut, attribuirsi tutte queste colpe, cioè ritenere di essere così importanti da aver generato tutte queste conseguenze, è appunto segno di incredibile superbia.
In effetti, prima che la colpa, intesa come causa di qualcosa che produce conseguenza, fosse legata al peccato con la narrazione seminale della mela morsa da Adamo ed Eva e quindi prima della variazione cristiana del concetto di colpa che poi finirà per essere quella dominante, l’idea di colpa nel mondo greco arcaico è sconosciuta e per un motivo molto semplice: non è l’uomo a muovere le pedine ma gli Dei. Quindi al massimo all’uomo è riservata l’accusa, se così si può dire, di hybris cioè, tanto per creare un corto circuito con altre parole di cui ci siamo occupati, mancanza di rispetto verso gli dei, gli unici cioè che possono attribuirsi la responsabilità di quello che accade, i soli che letteralmente possono qualcosa riguardo alla natura e ai destini degli uomini. In un passaggio piuttosto oscuro, almeno a leggerlo oggi, di Anassimandro, uno dei tre presocratici di cui ci siamo già occupati a proposito della parola respiro, si parla in realtà di pena e punizione, che tutte le cose pagherebbero a tempo debito. Ma si parla appunto della natura e di tutte le cose e non si pensa certo all’uomo in quanto colpevole di un’azione, tantomeno in senso morale.
C’è però un greco, e, possiamo ben dirlo, un’icona greca, che cambia il corso di questa impostazione di pensiero: è Ulisse. Come ha spiegato bene Eva Cantarella, storica del mondo greco e romano e giurista, è con lui che si apae la strada a quel fondamentale concetto di responsabilità individuale che è premessa indispensabile per poter parlare di colpa e colpevolezza. Benché martoriato e stalkerizzato, diremmo oggi, dall’ossessiva presenza degli dei, di cui è spesso vittima, Ulisse è il primo che sceglie davvero (magari aiutato alla bisogna da qualche altro dio in competizione con i suoi pari) e per questo può assumersi una colpa o quanto meno una responsabilità. Prima di lui, e negli stesi poemi omerici, spiega Cantarella, al massimo possiamo parlare di quella che oggi chiamiamo responsabilità oggettiva: sei responsabile di qualcosa ma non l’hai fatto consapevolmente. Invece Ulisse ha qualcosa che è più della proverbiale astuzia: il cavallo di legno e il modo in cui sfugge a Polifemo rappresentano la capacità di essere fabbro del proprio destino. Vedete che in questo modo la colpa rappresenta un po’ il terzo vertice di una sorta di triangolo delle Bermuda della coscienza che ha nella responsabilità e nel debito, parole che abbiamo già affrontato, gli altri due angoli.
La parola coscienza non è citata a caso. La psicanalisi ha aperto la contemporaneità ad una revisione dell’idea cristiana di colpa, laicizzata nel concetto di complesso. Si è convinti, anche se, come ha suggerito Freud, in modo inconscio, di essere responsabili di un’azione o, ancora di più, di un’omissione e questo ci schiaccia e può opprimerci per il resto della nostra intera esistenza.Fra l’altro l’origine latina della parola, culpa, significa il furto avvenuto, l’aver preso e nascosto e questa parola c’è anche in greco ed è klopè.Le conquiste più recenti della neurobiologia e della biochimicacorrono però in soccorso di una teoria troppo legata all’idea della nevrosi come conseguenza della soppressione di un desiderio proibito. Edoardo Boncinelli, biologo e grande divulgatore, si chiede ‘perché ci sentiamo così di frequente in colpa’? La risposta sembra essere biologicamente semplice: ogni nostro comportamento, dice Boncinelli, è il risultato di una serie di spinte a fare e di altrettante a non fare. Sono spinte a livello ormonale e nervoso. Una guerra del cervello tra regioni sottocorticali e corteccia cerebrale prefrontale. Chiunque abbia la meglio lascia l’altra metà insoddisfatta e mortificata. Inutile combattere: il senso di colpa non scomparirà perché non può. Anche quando l’unica colpa è essere giovani o essersi fatti crescere i capelli, come cantavano i Rokes (che all’epoca, guardate un po’, venivano definiti ‘complesso’) in ‘Ma che colpa abbiamo noi?’. ASCOLTA
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