Si è parlato e scritto molto sul discorso di Mario Draghi alle Camere e sulle parole che ha scelto per rivolgersi ai rappresentanti dei cittadini e all’Italia tutta. Ma, come diceva Miles Davis a proposito della musica, le note servono in realtà a incorniciare il silenzio. E anche il brano, arcinoto, che si intitola Il silenzio o meglio ancora Il tocco del silenzio, la cui origine è avvolta nella leggenda ma collocata con certezza nella seconda metà dell’Ottocento durante la guerra civile americana, non è altro che il tentativo di far emergere il silenzio, il raccoglimento da pochissime note suonate con la tromba.
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E in effetti, al di là delle parole, pur importanti e scolpite con asciuttezza dal presidente del Consiglio, quello che è sembrato contare di più, è il silenzio che le ha precedute e che, con ogni probabilità, le seguirà. Le pause (come quelle musicali non come quelle di Celentano), i silenzi che precedono la comunicazione di fatti reali, di cose compiute, già sono, e potrebbero continuare ad essere, il tratto distintivo del nuovo governo di unità o salvezza nazionale. Purificazione rinfrancante dopo decenni di chiacchiere da talk e da social o un eccesso di felpata riservatezza che vuole nascondere i meccanismi e le azioni del potere? Il silenzio serve a preservare l’operosità o a proteggere segreti?
Mario Draghi sa esattamente di cosa si parla. Ha studiato da quei gesuiti che pochi anni fa organizzarono una tre giorni di eventi intitolata Silenzio e parola in memoria di Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, che disse di aver imparato dai gesuiti il senso della dedizione. E il film che Martin Scorsese dedicò nel 2016 all’odissea di due giovani gesuiti portoghesi in Giappone, si intitola Silenzio, in questo caso il silenzio attraverso cui Dio stesso parla. E la parola silenzio è seconda solo a poche altre, come amore e felicità, per numero di citazioni più o meno celebri, più o meno illuminanti, rintracciabili in rete o nei manuali.
Da quella definitiva e tombale della conclusione dell’Amleto di Shakespeare (‘Il resto è silenzio’ sussurra il principe di Danimarca: e sta parlando della sua morte certo ma la tragedia è anche un dramma sulla legittimazione del potere) a quella zen (‘Molto spesso scelgo il silenzio per dire le cose più importanti’). Senza contare una delle espressioni da alcuni anni più in voga: silenzio assordante, un ossimoro buono per ogni situazione in cui si voglia sottolineare che un mancato intervento, un’assenza, un vuoto, un’astensione fanno più rumore di tante parole.
Il silenzio parla, insomma, e questo come molti paradossi, è una contraddizione solo apparente. D’altra parte paradosso non significa assurdità ma, dal greco, qualcosa che è contro o meglio ancora oltre l’opinione comune, parà doxa. Per questo la filosofia antica, da Zenone agli stoici passando per il celebre paradosso del mentitore (per cui chi dice ‘io mento’ dice contemporaneamente il vero e il falso), ne ha fatto largo uso.
L’origine della parola silenzio, che è un’altra di quelle che si mantengono pressoché identiche in tante lingue, anche provenienti da ceppi diversi, è il latino silere che significa tacere ma già il bretone siul significa tranquillo perché l’assenza di rumore coincide con la calma. C’è chi mette l’accento su quella s, che c’è sempre all’inizio, e che si potrebbe far risalire al suono sss e al gesto del dito davanti alla bocca e chi invece fa riferimento alla radice indoeuropea si- che significa legare da cui anche silo cioè laccio: e qui il silenzio è più una costrizione che una scelta e comunque chiuderebbe piuttosto che aprire, come dovrebbe succedere alla mente nelle discipline orientali ma non solo.
Il silenzio è nostro amico, nostro compagno fedele anche nei momenti più difficili e assurdi e ha, letteralmente, un suono. Lo ha raccontato in modo ineguagliato Paul Simon in Sound of Silence in cui si parla fra l’altro di presone che parlano senza dire niente e persone che sentono senza ascoltare. E nessuno, cantavano Simon&Gurfunkel, osava disturbare il suono del silenzio
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