Alla Cop26 di Glasgow si devono decidere tante cose, ma quella che conta davvero è una sola: quanto ciascun stato aumenterà il suo taglio delle emissioni di gas serra. Se la somma dei tagli nazionali sarà consistente, si potrà mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 2 gradi dai livelli pre-industriali (l'obiettivo minimo dell'Accordo di Parigi), o anche al di sotto di 1,5 gradi (l'obiettivo massimo).
Se il taglio sarà modesto, il riscaldamento supererà quel limite, e dovremo affrontare desertificazione ed eventi meteo estremi, col corollario di guerre, fame e migrazioni.
Quando hanno firmato l'Accordo di Parigi, nel 2015, gli stati dell'Onu hanno preso degli impegni per ridurre le emissioni. Si chiamano Ndc, Nationally Determined Contributions.
Ogni 5 anni questi impegni devono essere rivisti. La revisione doveva avvenire l'anno scorso, ma la Cop26 di Glasgow è stata rimandata di una anno per la pandemia.
Oggi siamo arrivati al dunque. Nella capitale scozzese, i firmatari degli Accordi di Parigi dovranno dire quanto vogliono tagliare le loro emissioni climalteranti. Il successo non è affatto scontato. "Il vertice potrebbe andare male", ha ammesso il padrone di casa, il premier britannico Boris Johnson.
Gli impegni presi a Parigi (generici e poco vincolanti) si sono rivelati insufficienti per mantenere il riscaldamento globale sotto i limiti previsti dall'Accordo. Con gli Ndc attuali, gli scienziati prevedono che nel 2100 arriveremo da +2,6 a +2,7 gradi. A parole, tutti gli stati del mondo sono d'accordo che la crisi climatica sia un'emergenza, e che sia necessario accelerare sulla decarbonizzazione. Ma quando si tratta di passare ai fatti, i problemi saltano fuori. L'agenzia dell'Onu per l'ambiente, l'Unep, ha denunciato che i governi del mondo continuano a investire sui combustibili fossili, e che molti non hanno neppure mantenuto gli impegni presi a Parigi.
Gli stati più ricchi e industralizzati (Usa, Ue, Giappone, Gran Bretagna, Canada), quelli che possono permettersi ingenti investimenti per la decarbonizzazione, negli ultimi tempi si sono impegnati a tagli più consistenti delle emissioni. L'Unione europea punta a una riduzione del 55% al 2030. Il problema è che non è detto che ci riescano. Uscire dalle fonti fossili richiede tempo e investimenti enormi. Le lobby del carbonio fanno resistenza, e molti lavoratori temono di rimanere in mezzo alla strada.
Ma il problema maggiore sono le economie emergenti. Cina e India, pur investendo fortemente sulle rinnovabili, sono restie ad abbandonare rapidamente le fonti fossili, per non rallentare il loro sviluppo. La Cina, manifattura del mondo, è anche il primo emettitore di gas serra, con oltre 10 milioni di tonnellate all'anno. Gli Stati Uniti sono i secondi con 5.285 tonnellate, l'India terza con 2.616. Se i paesi emergenti non tagliano drasticamente, gli sforzi dei paesi ricchi servono a poco (la Ue produce solo l'8% dei gas serra). Pechino ha preso un impegno generico ad arrivare a zero emissioni nel 2060, New Delhi neppure quello.
Poi ci sono le potenze petrolifere, come Russia e Arabia Saudita, che naturalmente fanno fatica a decarbonizzare. E infine ci sono i paesi meno sviluppati, che non hanno proprio i soldi per farlo, e che subiscono i danni maggiori della crisi climatica.
Oltre all'aggiornamento degli Ndc, la Cop26 deve prendere altre tre decisioni importanti, contenute nell'Accordo di Parigi e mai attuate. Deve attivare il fondo da 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi poveri a decarbonizzare, deve definire il mercato internazionale delle emissioni di carbonio (come l'Ets europeo) previsto dall'articolo 6 dell'Accordo, deve completare il "Paris Rulebook", cioè l'insieme delle regole per attuare l'Accordo e per valutare quanto viene fatto da ciascun paese.