Quante volte vi è capitato di ascoltare alla radio o in tv o magari di leggere su un giornale la parola ‘iconico’? E’ iconico un cantante (per esempio David Bowie), è iconica la borsa di un famoso marchio di moda, è iconica perfino una palette per il trucco, cioè quegli astucci che contengono cosmetici di vari colori. Qualcosa di simile succede ad ‘evento’: ogni piccolo appuntamento, ogni convegno anche irrilevante, ogni apertura di negozio è immediatamente promossa ad evento. L’uso insistito e dilatato di un termine, che irrompe improvvisamente nel linguaggio comune, non è certo un fenomeno nuovo. In genere è legato a improvvise, e magari effimere, passioni di massa o alla diffusione virale di un semplice intercalare utilizzato con naturalezza da personaggi pubblici e immediatamente adottato da fasce di pubblico più vaste magari perché considerato elegante, raffinato.
Rientra nella prima categoria una espressione ora totalmente passata di moda ma che ebbe un certo successo, soprattutto fra i cronisti politici, negli anni 90. Erano i tempi delle sfide veliche del Moro di Venezia prima e poi della scoperta della passione per la vela di un personaggio pubblico come Massimo D’Alema, fotografato in vacanza al timone del suo Ikarus. Ebbene ogni svolta, cambio di idea, o più semplicemente ogni deviazione da una posizione originaria veniva etichettato dai notisti politici come strambata. Era un trasferimento chiaramente forzato di un termine tecnico, quello che indica la manovra con la quale si cambiano le mure dell'imbarcazione a vela passando con la poppa verso il vento, nel linguaggio comune e infatti ebbe vita breve. Si parlò di ‘strambata del governo’ finché lo stesso D’Alema ne fu il capo o, prima, un membro importante. Poi si può dire che l’espressione tramontò insieme allo stesso leader degli allora Democratici di sinistra. Nella seconda categoria, quella degli intercalari elevati quasi a birignao, rientra invece il successo di un’espressione come ‘tuttavia’ che nei talk show politici è un vero e proprio must perché sembra permettere l’introduzione di un concetto o di un ragionamento avversativo senza usare il ‘ma’ , in modo più morbido si potrebbe dire. In un certo senso è il modo per concedere qualcosa ad un ragionamento ma poi smontarlo subito dopo.
Il caso di iconico ha qualcosa di entrambi gli esempi che abbiamo fatto ma è ancora diverso. Intanto il mondo dei cosiddetti opinion makers nel frattempo è molto cambiato e oggi un influencer o uno Youtuber conta, dal punto di vista che ci interessa, molto più di un politico o di un giornalista che ne racconta l’attività e le prese di posizione. E cresce dunque la sua capacità, è il caso di dire virale (un altro termine che meriterebbe una riflessione), di diffondere un’espressione. Ecco: ripeti iconico più volte in un tutorial su YouTube è il gioco è fatto. Ma da dove arriva questa parola? Come spesso succede, ed è questa una delle ragioni di questi nostri viaggi nel linguaggio, da molto lontano. L’origine è un termine greco bizantino, eikòn, che vuol dire immagine e che a sua volta deriva dal verbo eikénai, traducibile in "essere simile", "apparire". Oggi la ragione più comune per la quale usiamo il termine icona è per riferirci a quelle piccole figure che abbiamo sui nostri smartphone che sono la porta di ingresso alle applicazioni informatiche che sostanzialmente scandiscono le nostre giornate, ci fanno comunicare con gli altri, ci fanno informare e divertire: Facebook, Whatsapp, YouTube. Sono in altri termini, immagini familiari.
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Ben diverse da quelle porte regali che lo studioso russo Pavel Florenskij ci ha raccontato e descritto nel libro omonimo e che sono invece le icone russe, il prodotto della cultura cristiana bizantina e slava, raffiguranti, in genere in piccole dimensioni portatili, immagini sacre. Il titolo del libro, Le porte regali, fa riferimento proprio al passaggio, all’ingresso da un mondo ad un altro mondo, alla soglia che varchiamo grazie all’osservazione quasi estatica dell’icona. Nell’interpretazione di Florenskij, singolare figura di studioso e mistico vissuto tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, l’icona non è tanto un simbolo, come vorrebbe la classificazione tradizionale della semiologia, ma quasi la rivelazione di un’altra verità rispetto a quella del mondo terreno. Insomma, icona, e quindi iconico, sembra proprio un termine prezioso, da maneggiare con cura, si potrebbe dire. A definire iconico tutto, anche un frigorifero, si rischia l’effetto che il buon vecchio Hegel definiva la notte in cui tutte le vacche sono nere. Se tutto è iconico, infatti, niente è iconico. Teniamoci il Duca Bianco, la canotta di Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio, il tubino di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany e magari i bus rossi a due piani di Londra e scartiamo tutto il resto.
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