Cominciamo alle elementari a distinguere tra astratto e concreto e non smettiamo più: quell’impostazione, che sembra anche piuttosto intuitiva, ci seguirà per sempre e sarà il motivo per cui, ad un certo punto della nostra vita certamente ci sorprenderemo (o sorprenderemo altri) ad usare espressioni come ‘andiamo al concreto’ oppure ‘sì ma in concreto che vuol dire?’. E’ stata la settimana dei richiami alla concretezza. Da parte del presidente della Repubblica, innanzitutto, ma anche delle opposizioni e degli industriali. E non solo. Nessuno ha dubbi su cosa significhino questi richiami e per lo stesso motivo tutti concordano sulla loro necessità e sul fatto che si arrivi dunque, e possibilmente presto, ad una conclusione. Quando sentiamo la parola concreto, concretezza, concretamente, infatti, automaticamente sappiamo che stiamo parlando di qualcosa che si contrappone ad astratto e cosa questo possa significare ci sembra molto chiaro.
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Quando a scuola ci insegnano la differenza tra nomi astratti e concreti, ci viene detto che quelle concrete sono cose che possiamo percepire, che possiamo raggiungere con i nostri sensi: toccare, sentire, vedere ecc. Ma è proprio qui che cominciano i problemi. Ciò che annusiamo è concreto? La melodia che ascoltiamo con le nostre orecchie è concreta? Cioè concreta nel senso in cui diciamo che sono concreti un tavolo o una sedia? Se fosse proprio così che bisogno ci sarebbe stato per esempio di etichettare una corrente, un filone musicale come musica concreta? Secondo la Treccani sarebbe nata nel 1948 per mano di Pierre Schaeffer, un compositore francese che registrava su nastro magnetico suoni e rumori ambientali successivamente rielaborati e mixati. Il concreto qui sarebbe dunque riferito ad oggetti o piante o animali da cui provengono quei rumori trasformati in musica. I francesi, si sa, sono dei maghi nell’attribuirsi paternità, soprattutto artistiche. In realtà, un’operazione analoga, realizzata in modo più semplice e con le tecnologie dell’epoca, l’aveva realizzata il futurista italiano Luigi Russolo, creatore fra l’altro nel 1913 dell’’intonarumori’, uno strumento in grado di produrre suoni modulabili in altezza. ‘Risveglio di una città’ era il titolo di una delle opere in cui veniva usato lo ‘strumento’.
Insomma, non c’è dubbio che abbiamo qualche difficoltà a ricomprendere nella categoria del concreto, come ci viene spiegato a scuola e come intuitivamente lo immaginiamo quando ci richiamiamo alla concretezza, un arcobaleno, un odore, un riflesso sull’acqua o anche una nuvola, anche se conosciamo ormai perfettamente l’origine fisica di tutti questi fenomeni. E d’altra parte: la paura, che è un sentimento e quindi non rientra nei cosiddetti nomi concreti, è forse meno concreta? E l’ansia? E a quante realtà concrete possiamo dare vita con la volontà, che non si tocca, non si sente, non si vede e non si annusa? Se fosse così semplice distinguere, non si sarebbero affannati per secoli pensatori di ogni inclinazione e provenienza sul tema del concreto. Fino a quello più ambizioso di tutti, Hegel, per il quale il concreto non è il mattone o la casa, ma una sintesi, parola tanto cara al filosofo, di elementi diversi: non è astrazione ma non è neanche la concretezza come la intendiamo quando diciamo ‘andiamo al concreto’.
Per questo, spiega Hegel, al di là del diritto (astratto) e della morale (individuale, personale), c’è il concreto, cioè l’eticità ovvero la proiezione di quella morale nel mondo della collettività, ovvero la famiglia, la società civile e infine lo Stato. E un esistenzialista cattolico come Gabriel Marcel parlava di universale concreto per indicare l’umanità non come concetto astratto come totalità concreta degli uomini. L’etimologia della parola sembra essere assai più vicina a Hegel che ai nostri maestri e maestre elementari. Concretus è il participio passato del verbo concrescere e vuol dire denso, coagulato, rappreso: da cum e crescere, cioè crescere insieme, restituisce l’idea di un singolo insieme ad altri che dà vita ad una moltitudine, ad un insieme (ad una sintesi?). Ce ne è abbastanza per offrire l’opportunità ad un amante delle vertigini delle parole o anche soltanto dei calembour, come il poeta e paroliere Pasquale Panella, collaboratore di Battisti negli ultimi anni della sia vita, di citare la parola concreto in una canzone sui doppi giochi e i doppi sensi tra il linguaggio comune e le contraddizioni di una realtà (di coppia).