All’alba degli anni ’80, Donatella Rettore, che oggi viene probabilmente definita mitica ad ogni citazione, dà vita al suo secondo grande successo popolare, dopo Kobra, con la canzone Lamette contenuta in un album dal titolo Kamikaze Rock’n’Roll Suicide. I tagli di cui parla Rettore, figlia di una nobildonna veneta, non lasciano spazio a interpretazioni: parlano di sangue e morte, sono mutilazioni (il titolo dell’album d’altra parte è esplicito) di derivazione post-punk, anche se raccontate a ritmo di un coloratissimo elettro-pop. Ma dietro la parola tagliare non risuona soltanto questo timbro horror e funereo. Tutt’altro.
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Il taglio dell’Iva, quello dei vitalizi e dei parlamentari o quello della spesa pubblica, per chi li auspica e li propone sono tutt’altro che mutilazioni. Sono o dovrebbero essere, il presupposto si una rinascita, di una nuova vita (quindi il contrario del suicidio rock’n’roll di Rettore), resa possibile proprio da quel taglio. Molti anni fa ai bambini si diceva di tagliare i capelli perché così si sarebbero rafforzati: non era e non è vero ma l’idea, che in realtà deriva dalla particolare conformazione a cono di peli e capelli che quindi una volta tagliati danno l’impressione al tatto di essere più forti e più duri, forse è legata all’esperienza contadina dell’uomo e alla pratica della potatura, che a sua volta deriva dal latino putare che vuol dire pulire, nettàre. Le ragioni principali della potatura sono due: eliminare parti invecchiate o malate o dare una forma nuova alla pianta. In entrambi i casi, come si vede, siamo molto più vicini alla vita che alla morte, alla rinascita piuttosto che al suicidio. Talea, o tàlea se vogliamo dirlo alla latina, è la parola che indica la parte di una pianta appositamente tagliata (e in talea quella radice è evidente) per rimetterla nell’acqua o nella terra e dare vita ad una nuova pianta. Ed è proprio quell’idea di vitalità, di creazione e di plasticità di una nuova forma che prevale in tanti modi di dire legati al taglio.
A cominciare dal taglio di capelli, che è una messa in forma, o in piega, che dà un nuovo volto ai capelli e, spesso lo speriamo, alla persona stessa. Ma anche quando parliamo, e nel giornalismo lo si fa spesso, di dare un taglio ad una storia, cioè di individuare una prospettiva particolare, un’angolazione piuttosto che un’altra e quindi dare una forma a quella storia, di mettere in luce qualcosa rispetto a qualcos’altro. In inglese tagliare si dice cut che è la stessa parola che si usa per il montaggio al cinema (il famigerato final cut, ovvero l’autentica versione del regista) il quale, come sanno bene tutti gli appassionati, è quell’arte che dà la vera e definitiva forma al film. Fino al principe di tutti i tagli, ovvero il taglio sartoriale e l’utopia, inseguita per esempio da Gianni Versace, dell’abito scolpito con un unico taglio.
Se poi dobbiamo proprio parlare di arte, sarà difficile non considerare i tagli che hanno reso immortale Lucio Fontana, uno dei maggiori artisti del Dopoguerra, italiano ma argentino di nascita. Quei quadri, se ha ancora senso chiamarli così, hanno in genere come titolo Concetto spaziale o Attesa: in entrambi i casi c’è un rimando evidente a qualcosa di sospeso, di progettuale piuttosto che all’idea della mutilazione.
Ogni taglio è infatti proprio questo: una danza in bilico tra ferita e apertura. In fondo anche il taglio dell’Iva lo è: privazione per qualcuno, rinascita per qualcun altro. E anche il decoupage, parola francese che deriva da découper, ritagliare, cioè l’arte del collage realizzato assemblando ritagli diversi, è una forma di rivitalizzazione di una cosa, di un oggetto o la creazione di un ‘opera d’arte ex novo da fogli di carta pre-esistenti a cui, letteralmente, è stata data nuova forma. Matisse è stato un maestro di quest’arte leggera, infantile e liberatoria.
Come liberatorio è tagliare la corda, anche qui letteralmente, tagliare corto o tagliare la testa al toro, cioè risolvere di netto una questione che sembrava complicata. Un’espressione che non è nata in Spagna, come magari si potrebbe pensare, ma in Italia nel XII secolo dopo una disputa tra il patriarca di Aquileia e il doge di Venezia e relativo scontro tra eserciti. Quest’ultimo fece prigioniero il capo di quella Chiesa, Ulrico, e lo liberò in cambio di un riscatto, nel quale era compreso un toro che rappresentava proprio il patriarca. Gli venne tagliata la testa sulla pubblica piazza, indicando così che la diatriba con Aquileia era risolta per sempre.