"In Germania la nazionale viene prima di ogni cosa, da noi contano i club". Non sta certo solo qui la chiave del flop dell'Italia al Mondiale, ma per l'ex Ct Cesare Prandelli c'è anche questo dietro al fallimento brasiliano. Lo chiarisce in un'intervista al Corsera in cui il tecnico torna a parlare della spedizione azzurra e replica alle accuse. "Le critiche feroci ci stanno - ammette - Ma quando leggi e ascolti certi attacchi di tipo personale...". Prandelli non cerca alibi: "È il progetto che non ha funzionato. Pensavamo di giocare in un certo modo e non ci siamo riusciti. Pensavamo di mettere in difficoltà la Costa Rica e non ce l'abbiamo fatta. Questo era il progetto tecnico. Ed è fallito. La responsabilità è mia. Avevo Cerci, Insigne, Cassano, Balotelli, quattro attaccanti che in campionato hanno mostrato il loro valore. Non siamo riusciti a creare una palla gol e siamo andati dodici volte in fuorigioco.
Ho messo quei quattro e pensavo di vincere la partita. E, ripeto, ho fallito". Qualche rimpianto c'è ("Con Montolivo e Rossi la squadra aveva dimostrato una buona identità. Dopo gli infortuni, abbiamo dovuto cambiarla"), ma il fallimento parte da lontano: "La Germania, quando ha avuto difficoltà, si è chiesta: qual è la nostra squadra più importante? Non ha risposto Bayern o Borussia. Ha risposto "Germania" e tutti si sono messi al servizio della nazionale. Nelle squadre italiane - punta il dito Prandelli - gioca il 38% di italiani. La stessa Juve ha sei titolari stranieri. Puntare sui settori giovanili, dicono. Ma se sono pieni di stranieri? Di cosa stiamo parlando?". "È il nostro calcio che va rivisto - incalza - Ripeto, dobbiamo partire da una domanda: qual è la squadra più importante in Italia? Non è la tua Inter, non è la Juve, la Roma, la Fiorentina o il Milan.
È la nazionale. Solo così si arriva preparati ai grandi eventi".
E l'accusa che l'ha ferito di più? "Quella di essere scappato - risponde l'ex ct a Beppe Severgnini - L'idea della fuga. Non è vero. L'ho dimostrato nella mia vita, personale e professionale.
È successo a Parma, dopo il crac Parmalat: sono scappati in tanti, io sono rimasto e con la mia squadrettina siamo arrivati quinti. È successo a Firenze. Non sono scappato. Sono rimasto al mio posto da solo, con i dirigenti inquisiti in Calciopoli, e nonostante questo, senza penalizzazione, saremmo arrivati secondi in campionato. E non sono scappato dalla federazione: siamo tutti dimissionari. Quindi io non sono scappato da nes-su-no. Fuga? Fuga de che?. Adesso il futuro si chiama Galatasaray e non c'è nessun rimpianto per la panchina della Juve che magari sarebbe potuta essere sua se solo avesse aspettato qualche giorno prima di andare in Turchia: "Per due volte sono arrivato vicino a quella panchina, ma sono orgoglioso della scelta che ho fatto di restare a Firenze. Credevo in quel progetto sportivo". La nazionale è comunque ormai un capitolo chiuso: "Assolutamente. Il mio tempo azzurro è passato. La nazionale galleggia ancora e si rimetterà a navigare. I giocatori potranno riscattarsi".